Che CAPOLAVORO!!!!
I The Living Fields hanno concepito in tre anni di lavoro un dischetto che ha fatto la mia gioia di recensore ma prima di tutto di amatore di buona musica, da più di un decennio non mi è capitato spesso di definire dei dischi dei piccoli capolavori, ci vado spesso con i piedi di piombo e non mi lascio meravigliare dai primi ascolti tornando spesso sui miei stessi passi studiando nei minimi dettagli ogni disco che mi capita per le orecchie. Questo omonimo debut album degli statunitensi invece è davvero invece un opus unico e degno di ogni lode. Se da una parte il filone del genere proposto di per se non sia uno dei miei preferiti (il cd potrebbe essere definito come un'opera di epic progressive doom metal) si corre il rischio di sottovalutare il lavoro poiché a parte la base doom metal molto forte il resto lascia di stucco per l'equilibrio raggiunto scevro dei soliti inumani piatti tecnicismi e vocals ridicole, al contrario questa non è che la strada intrapresa dal combo con la definizione che più si avvicina ma che tuttavia non scende nella particolare connotazione estrema dell'ensemble. I The Living Fields sono una varietà di musicisti che va scomparendo, ovvero quelli coraggiosi che si evolvono nella coerenza senza disdegnare la sortita ardimentosa in campi non propriamente vicini al genere proposto, ebbene il gruppo di Chicago ci si cimenta appieno scovando un mix convincente di generi che confluiscono tuttavia in un unico, solo e distintivo. Si parte dal doom dicevamo, il doom classico di base, quello in mezzo tra hard rock e metal cupo e sulfureo arricchito dalla tecnica e da una esecuzione meno semplicistica del consueto, il bello di tutto è che i nostri pur esibendosi in un genere molto frequentato, ed in parte in chiave heavy-rock e come accennavo da doom masters dei '90 (Paradise Lost, Anathena, My Dying Bride, etc) aggiungono un valore incredibilmente sottile, impercettibile ma presente. La squisitezza degli arrangiamenti, seppure ancora non al top dell'originalità e della scorrevolezza musicale, bene si sposa con le orchestrazioni e gli incastri in cui è la componente metal a fare da risalto ed immissioni in sentieri epico-tragico-imponenti e a brevi ma convincenti, sortite nel power-epic-progressive con quel tocco di cupezza e selvaggio approccio che sa tanto di reminiscenze thrash sapientemente aggiustate nel doom catatonico e tangenti in alcuni punti nel black e death catartici. Immaginatevi ora il tutto spruzzato di varie tonalità di colore costituite dagli strumenti, non solo chitarre elettriche, basso e batteria ma anche chitarre acustiche, violini, piano, viola, cello, samples campionati, tastiere sempre molto idilliache ed evocative ma anche dolci e delicate melodie necessarie per sottolineare giustamente ed in modo non 'traumatico' certi passaggi palpitanti, in primis nelle song molto lunghe come "What is Left Behind" e "The Overview Effect" ad esempio. Il 'collage' quindi non è propriamente tale, in uno stillicidio di idee, costernanti momenti dai toni decadenti e visioni oniriche la band strappa consensi specialmente per l'esecuzione e la trama dei brani che sprizzano energia vitale da tutti i pori, il sound nel complesso si incanala preciso in un mondo di variegata compattezza seppure le radici restino l'accoppiata metal estremo-heavy rock, con un costante chiaro-scuro, ed un trionfale-sottomesso che si fa largo tra le note, nel corso dei ben 47 minuti del disco in cui i The Living Fields hanno la capacità di essere camaleontici e quadrati, calando varie maschere (quelle dei generi prima accennati) per nascondere la loro vera essenza di sperimentatori in un settore, quello del metal estremo, troppo spesso annichilito dalla piattezza e da regole imposte non scritte che tendono ad ossidarlo. Che le loro vecchie spoglie fossero quelle del death e doom metal gia lo si può percepire dall'apertura di "What is Left Behind" e dalle restanti tracks dove l'impostazione del batterista rifugge ogni dubbio, battiti mid tempo forsennati e accenti sui piatti e cymbals anche variegati ma pur sempre estremi, notevoli comunque le frenate brusche e le cavalcate in pieno metal prog seppure semplicistico. Ciò che mi preme sottolineare sono però le partiture selvagge al limite con il black erudito e l'epic metal fiero e battagliero e le estremizzazioni che spesso sfociano in un focus psichedelico di natura monumentale con gli intrecci molto complessi e ricchi di trovate geniali. Parliamo quindi dei punti fermi di questo omonimo e squisito platter: uno, la batteria davvero ben suonata, interpreta nella migliore tradizione metal in ogni passo del cammino di queste entusiasmanti tracce, poi la voce, uno dei cantanti più istrionici che mi sia capitato di ascoltare, l'artefice è il Neo Zelandese Jon Higgs (gia nei MonsterWorks) un vocalist completo che riesce a passare dal falsetto (non da finta checca) al growl più pesante, opprimente e profondo aiutato anche dall'utilizzo di sovra-stratificazioni di più vocalizzi, poi c'è il lavoro di Jason Muxlow che si prospetta come un nuovo mastermind del metal moderno, a lui sono da addebitare la stesura dei brani e l'arrangiamento nonché il brillante lavoro sulle chitarre e sul basso oltre a tutte le campionature (davvero bravo!), si evince da ogni solco che il tipo ha gusto ed estro necessari per imprimere il suo nome tra le 'all stars of fame' del panorama metal mondiale. Il tutto risulta brillare di luce propria come il riflesso su uno specchio magico, ed i riflessi assumono una rifrazione atipica e naturale al contempo, ovvio che le track che preferisca siano "Burial at Sky", "The Soil Giveth" e "The Overview Effect" le più estreme del cd, ma anche la opener "What is Left Behind" con il suo incedere ossessivo e riempitivo non è da meno, non voglio fare un excursus track by track perché credo che questo disco sia degno di essere acquistato a scatola chiusa e gustato sino in fondo anche perché confezionato in una splendida veste digipack, penso che sia il caso che ve lo procuriate poiché non credo che la tiratura del medesimo sia stata delle più copiose dato che (ahimé) si tratta praticamente di una auto-produzione sotto l'etichetta personale di Jason Muxlow e ciò mi lascia alquanto perplesso visto che non si tratta di una scelta personale ma derivata dal fatto che nessuna etichetta, nonostante sollecitata, si sia degnata di offrire un deal a questa new sensation americana. Detto ciò non vi resta che correre a cercare questo cd per dare ai The Living Fields un ulteriore motivo di esistere, credetemi, ne vale la pena perché non è capitato spesso di trovare band che riescono a stare nel giusto equilibrio tra epico, monumentale, teatrale, onirico ed aggressivo pur restando in una dimensione di modernità shockante: tutto questo in un sol colpo. Ne vedremo (sentiremo) delle belle... 90/100
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Jonathan Higgs: Vocals, Lyrics Anno: 2008 |