I Resonance Room sono una formazione di Catania forte di una certa esperienza, avendo già inciso due demo negli anni passati, anche se il nome del gruppo era ancora Fragment.
Il loro primo lavoro completo, intitolato “Unspoken”, è stato ideato come concept album, visto che è praticamente un viaggio nella graduale ricerca di una drammatica verità; la copertina mostra un albero rinsecchito e circondato dalla desolazione, mentre il libretto, oltre ai testi, presenta alcune raffinate immagini. Si inizia con “Unreason”, un’intro che descrive brevemente la pazzia accompagnandosi con un piano malinconico, elemento caratteristico del gothic metal. Segue “Escape”, che descrive i ricordi di un giorno funesto in cui l’infanzia, unica età felice dell’uomo, venne duramente colpita. Il brano, duro e ritmato, viene variato con l’utilizzo di sovrapposizioni vocali e del pianoforte, ma anche mediante alcuni passaggi melodici e doom; segnaliamo, come curiosità, la presenza di una frase in italiano, cioè la traduzione dei versi iniziali del pezzo precedente. Su “Far from Grace”, che poggia sull’alternanza tra la pesantezza del growl e la melodia della voce pulita, il sogno si muta in disperato incubo, per via del materializzarsi di una misteriosa figura. Durante gli otto minuti di “Maybe You Are…” l’ombra inizia a parlare, lasciandoci in balia del dubbio: si tratta di uno spirito, di una figura reale o di un frutto dell’inconscio? E se invece fosse l’amore vagheggiato? Dopo un avvio al piano, la canzone cresce triste e sospirata; segue una parte imperniata su chitarra e tastiera, quindi la batteria segna il passo per la distorta accelerazione di tutti gli strumenti all’unisono, mentre la conclusione spetta ancora al pianoforte. Si continua con il mid-tempo “The Warmth of Life”, che ci permette di scoprire che l’ombra è proprio lo spirito di una persona morta. “Frost and Emptiness”, invece, è una descrizione del modo in cui quella persona trovò la morte e di ciò che la morte stessa rappresenta, cioè un evento doloroso, che si fa più crudele quando il defunto è ancora giovane: tutto ciò è espresso tramite un malinconico assolo d’apertura, che lascia il posto dapprima ad un ritmo cadenzato, quindi alla velocità, che si interrompe magicamente al piano, giungendo ad un finale drammatico. Segue la massiccia e quasi orecchiabile “Bloodred” (che ci sembrerebbe piuttosto adatta al ruolo di singolo estratto dal disco) a rivelare che lo spirito apparso al protagonista del concept è quello di una donna, che di lui era innamorata: i due avevano anche un bambino, con il quale, inspiegabilmente, l’uomo fuggì, in mezzo a confusi ricordi di un giorno di sangue e fuoco. Il misterioso velo comincia a cadere con la durissima “A Prayer”: in mezzo alla follia ed alle voci ossessive create dal tormento, il segreto di quanto avvenne quel giorno è stato mantenuto per oltre venti anni; è la parte vocale a dominare il brano, in quanto si destreggia tra sovrapposizioni, un drammatico growl ed un momento sussurrato che conduce alla conclusione melodica. Si va avanti con “Instants of Madness”, dove il protagonista, in preda al rimorso, medita di uccidersi, rapito da un vortice di amore e morte: dopo un intervento al piano, il pezzo si indurisce apocalittico, prima di trovare liberazione in un assolo di chitarra. Tramite “While I’ll Burn”, invece, l’uomo supplica la morte di portarlo all’inferno, in modo che possa espiare i suoi peccati: la lentezza si trasforma in ritmo, lasciando spazio anche al solismo di basso e chitarra. Spetta alla conclusiva “Unspoken” svelare il finale: essendo di fronte ad un caso di immagini traslate in musica, preferiamo lasciare agli interessati il piacere di scoprirlo, anticipando solamente che si tratta di una conclusione coinvolgente, strettamente legata alla tragedia ed alla follia. Ci pare interessante evidenziare che gli ultimi versi sono gli stessi che avevano aperto l’album, come se fossero posti a chiusura del cerchio e, quindi, del concept. Dal lato puramente musicale, la canzone è aperta dalle tastiere, che si esibiscono in alcuni passaggi progressive, seguiti da un crescendo melodico che culmina nella disperazione finale, accompagnata da un altro assolo di chitarra; l’ultimo, inaspettato regalo che i Resonance Room ci porgono consiste in tre minuti di pianoforte malinconico, che prolungano il pezzo ben oltre gli otto minuti di durata. In quasi un’ora di atmosfere tipiche del gothic doom tradizionale - che nulla ha a che vedere con il nuovo “gothic” e con l’abuso di cantanti liriche che hanno saturato il mercato discografico – sono custoditi testi complessi e profondi, espressi in forma tanto di dialogo quanto di monologo interiore, che creano un riuscito effetto di disorientamento; questi testi accompagnano egregiamente brani elaborati, in equilibrio tra melodia e durezza, con lieve prevalenza della prima, grazie anche a qualche elemento di matrice progressive. Pur non essendo molto veloce, dato che questo settore non poggia certo le proprie radici sulla rapidità, il disco non annoia, anzi incuriosisce, essendo supportato da tecnica pregevole e da una discreta interpretazione vocale, principalmente espressa in clean vocals. In base a quanto finora scritto, riteniamo “Unspoken” adattissimo a tutti i seguaci del gothic e del doom metal, ma ne consigliamo un ascolto anche agli appassionati di classic, prog e death metal. 80/100
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Alessandro Consoli: Voce Anno: 2009
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