La sua musica intreccia elementi drammatici e comici, passando dal melodramma a modi più leggeri. Si libra e si infiamma: i motivi fugati nell'orchestra e nel coro accentuano i cambiamenti, mentre la pura melodia arricchisce la trama che si articola, e i suoi elementi fantastici continuano a modificarne la prospettiva. Anche la colorazione orchestrale è ampia, giustapponendo ottoni solisti e flauto, a cui si aggiunge, con buon protagonismo, l'arpa. Ma l’opera richiama anche momenti belcantistici, a dimostrazione di come Verdi guardasse al passato e al futuro, allontanando anche lo stigma di un maestro senza allegria, ispirato dalla musa comica solo per Falstaff e per il primo – e abbastanza sfortunato – Un giorno di regno. In realtà, il sorriso aleggia nelle pieghe di molte partiture verdiane – basti pensare a Ernani, Macbeth, Rigoletto e La forza del destino – e permea anche questo suo capolavoro del 1859. Un’opera che, per molti versi, potrebbe essere definita il suo Don Giovanni, perché possiede un robusto sostrato comico, dai perimetri riarsi dal fuoco infernale. Del resto, Un ballo in maschera pullula di canzoni strofiche e di ritmi di danza sfacciati, propri dell'opéra-comique e del teatro dei boulevard parigini. E, come il dramma giocoso di Mozart, si basa su mascheramenti, smascheramenti e dissimulazioni, tratteggiando la figura di un nobile moralmente sospetto, la cui divorante fame di vita lo spinge ad affrontare la morte volontariamente, persino con sfrontatezza. Conseguenze impreviste – verità nascoste mascherate, per così dire, da verità più evidenti – sono intrecciate in tutta l'opera. “Dell'amor più desto è l'odio, le sue vittime a colpir”, canta come monito Renato alla corte di Riccardo nel primo atto. Pur riferendosi alla pericolosa cospirazione pronta a scagliarsi sul suo amato sovrano, che ignora i suoi avvertimenti, l'osservazione schiude inconsapevolmente la feroce e insospettabile vendetta del “più fido amico” stesso, al culmine della narrazione. Tali rovesciamenti contribuiscono alla tinta unica del Ballo, come una sofisticata valutazione multiprospettica delle passioni umane e delle loro contraddizioni. Come in Shakespeare, il comico è inestricabilmente legato al tragico: “Ve', la tragedia mutò in commedia”, cantano infatti beffardi i congiurati, al termine del secondo atto, quando il velo di Amelia scivolerà via rivelando il – solo presunto – doppio tradimento. I protagonisti del Ballo sono tutti umanissimi nelle loro ipocrisie, fuggono da sé stessi e poi ritornano, in una sorta di contrappasso, per fare i conti con i rispettivi demoni. Nella regia di Davide Menghini, già proposta a Busseto, l’idea è di mettere in scena un’ultima, debordante festa disperata, in costante equilibrio tra vita e morte. L’obiettivo viene complessivamente centrato: mutano dunque gli atti e il trono di corte si trasforma ingegnosamente nell’abituro della maga, in botola con putti neri che scendono dal soffitto, e poi nell’orrido campo con profusione di teschi ghignanti, capi mozzati e scheletri – persino un'esecuzione. Il ballo in maschera finale recupera, esaltandola, la scena iniziale, con sfere specchiate che si assommano ai luttuosi angioletti. Le immagini vivaci della regia, sommate agli sfavillanti costumi di Nika Campisi, compensano abbondantemente qualche episodio di goffo simbolismo ed eccesso – uno scheletro anche nella biblioteca dello studio di Renato – e taluni rimandi di troppo all’estetica cinematografica, come nella rappresentazione di Riccardo marinaio in camuffa, che è un chiaro Jack Sparrow dei Pirati dei Caraibi. Matteo Lippi, come Riccardo, interpreta un ruolo difficile che comprende quattro arie, due duetti, due terzetti e persino una scena finale di morte, ma si distingue soprattutto nell’estensione acuta: brillante, rotonda e, a tratti, ardente. Nel “La rivedrà nell'estasi” la voce fluttua limpida sopra il coro e l'orchestra, e corona l'aria con il primo squillante e nitido la diesis della serata. Di rilievo anche il recitativo sorvegliato con emissione fluida, ben sostenuta ed appoggiata nel “Forse la soglia attinse” che prepara all’intenso duetto amoroso del secondo atto nel quale affronta la tessitura molto acuta con felici ascensioni al la naturale e al si bemolle. Bello anche il suo uso di lunghe frasi legate. Nel “Di' tu se fedele/Teco io sto” l’impiego del rubato è misurato, l'attacco al si bemolle ottimo, e la voce di petto ben integrata nell'effusione del timbro, validamente spinto. Durante il “Se m'è forza perderti” ha cantato con enorme profondità emotiva e un raffinato uso della mezza voce. L’Amelia di Maria Teresa Leva, chiamata ad un tour de force estenuante di quattro recite su cinque, è tratteggiata efficacemente, come dovrebbero essere i grandi personaggi verdiani: soli e annientati dal destino. Il suo dolore non ha punti di fuga e il suo canto è spezzato, tragico, segnato da grandi intervalli. Fa un uso misurato ma straziante del portamento e del registro grave, e possiede un'incisività ferrea nella seconda ottava e nei registri medi e acuti che, quando esposti, regalano momenti emozionanti – come nel do di “o Signor” in “Ma dall’arido stelo divulsa” o nel do bemolle acuto, in pianissimo raffinato, della sua seconda aria “Morrò, ma prima in grazia”, cantata a fil di voce e permeata di disperazione e tenerezza. Il baritono Sebastian Catana ha scontato un avvio difficile nel primo atto, incappando in alcune difficoltà nel registro acuto durante la cadenza di “Alla vita che t’arride”, ma è cresciuto sensibilmente sulla distanza. Ha cantato la sua aria “Alzati... Eri tu” colorandola gloriosamente con tutte le diverse emozioni: rabbia, furia, delusione, dolore d’amante e amico tradito, e pentimento, proponendo buone linee legate e valorizzando efficacemente il cromatismo della transizione dal fa al sol. Il mezzosoprano Chiara Mogini ha ben impressionato nei panni di Ulrica, considerando la difficile matrice contraltile della scrittura, gestendo subito bene il do iniziale sul “Re dell’abisso, affrettati”, che ha reso visibile la sua provenienza dalle profondità della terra. Ha mostrato tutta l’oscurità e il mistero del personaggio con una voce di petto robusta e buone note basse; il sol grave sostenuto sulla parola “silenzio” è stato davvero autorevole. Accurata anche la declinazione dei la bemolle acuti, con note chiare, continue e risonanti. Il soprano Claudia Ceraulo ha cantato il ruolo di pantaloni di Oscar in maniera brillante, con acuto facile e trillo genuino, e il tocco di coloratura necessari alle sue arie spensierate. Oscar, come il Cherubino mozartiano, è un ruolo manovrato ma centrale, perché è un personaggio mediano che sta fra l’eros e il gioco: è simbolo di quella leggerezza musicale che Verdi recupera dalla tradizione francese. La nitida coloratura si elevava sopra le sfumature orchestrali e corali nei concertati del primo e del terzo atto, e la gestione delle impegnative note alte staccate è stata pregevole. Andrea Borghini ha offerto una piacevole interpretazione nel ruolo minore di Silvano, il marinaio, mentre i congiurati Samuel (Zhibin Zhang) e Tom (Kwangsik Park) sono apparsi caratterizzati in maniera un po’ generica. Il cast è completato da Cristobal Campos Marin (Primo giudice) e Sandro Pucci (un servo d’Amelia). Il direttore Riccardo Frizza ha impresso un ritmo costantemente vivace ed è apparso particolarmente ispirato nel mettere in risalto le sottigliezze e le tonalità pastello della partitura verdiana, ben assecondato da un’ottima Orchestra del Comunale. Interessante la valorizzazione del sommesso contrappunto del violino sotto i legni nel preludio iniziale e nel minuetto del quartetto d’archi nel finale del terzo atto. Ha inoltre costantemente rafforzato la narrazione con un forte colore strumentale e una gamma sonora più ampia, adeguata al dispiegarsi dell'opera, integrando l’uso che Verdi faceva di elementi belcantistici nel primo atto mentre avanzava verso un’espressione musicale più realistica. Distingue chiaramente i momenti comici della prima scena del primo atto – con un suono più luminoso – dai toni più cupi nell’antro della veggente, enfatizzando la tenebrosità dei clarinetti e delle percussioni che aprono la scena. Risulta inoltre palpabile l'inquietudine che prefigura la tragedia attraverso le sincopi degli archi nell’aria di Ulrica. Menzione per le prime parti di corno inglese e violoncello, che hanno offerto buone prestazioni nei loro rispettivi soli del primo e del terzo atto. Il Coro, diretto da Gea Garatti Ansini, si è distinto per precisione nell’intonazione e nella gestione delle armonie. Nell’antro di Ulrica il tono oscuro e minaccioso in pianissimo risulta coeso e vibrante e nell’”Ogni cura si doni al diletto” è raffinata la cesellatura di accenti e sforzati. Durante la scena del ballo emerge nella florida orchestrazione, gestendo bene i pesi vocali, soprattutto dei soprani, che lavorano frequentemente in zona di passaggio.
Foto: Andrea Ranzi
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UN BALLO IN MASCHERA Melodramma in tre atti Libretto di Antonio Somma da Gustave III, ou Le Bal masque di Eugène Scribe Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo Matteo Lippi Renato Sebastian Catana Amelia Maria Teresa Leva Ulrica Chiara Mogini Oscar Claudia Ceraulo Silvano Andrea Borghini Samuel Zhibin Zhang Tom Kwangsik Park Primo giudice Cristobal Campos Marin Un servo d’Amelia Sandro Pucci
Orchestra, Coro e tecnici del Teatro Comunale di Bologna Direttore Riccardo Frizza Maestro del coro Gea Garatti Ansini Scene Davide Signorini Costumi Nika Campisi Luci Gianni Bertoli Assistente alla regia Andrea Piazza Assistente alla regia per i movimenti scenici e coreografici Marco Caudera
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna con Teatro Regio di Parma e Fondazione Rete Lirica delle Marche
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