Beh, credo che per me sia normale, riuscire ad abbattere ogni esaltazione, movimento cerebrale convulso, brivido felino, con un album del genere.
Stavo meditando proprio sullo stato di transizione che Everything All The Times ti consente di attraversare, senza passare dal bianco al nero in un solo colpo, insomma un po’ come il basso di una band, dalle note né abissali né celestiali. Ecco si, Everything All The Times è un po’ irrequieto, pronto a scoppiare appena sfili il tappo, ma dallo stato transitorio pacato. I Band Of Horses si sono conosciuti nella patria del grunge. Quattro ragazzi che hanno la dote di creare un’American Indie rock patriottico, attingendo dal misticismo psicologico e dal fisico materiale più che reale, partorendo così questo album, il primogenito di una band che ha la fortuna di vivere fra l’arancio e l’azzurro autunnale del South Carolina ma la sfortuna di non riuscire mai e poi mai nell’intento di sfondare al di la dell’Atlantico. Everithing All The Times racchiude tutto ciò che si vuole fare nell’arco della propria esistenza: nascere, fare, morire. Se poi, il tutto viene amalgamato da raffiche emozionali inaspettate accentuate da un suono pulito, dolce ma deciso, il finale della favola non può che essere piacevole. L’album ha una durata esigua, altro punto a suo favore e altro modo per convincervi ad ascoltarlo. Proprio per la fine particolarità dell’album, a volte poco percepibile ma presente, faccio un eccezione e do priorità a “The Funeral”. Occhio a non farsi ingannare dalle note celestiali e “funebri” iniziali, nonché dalla voce soffocata dalla nebbia del cantante, che non fanno altro che portarvi dritto per dritto nella scena lugubre del titolo, melodia triste si, ma dai retroscena forti che sfociano in quella luce che tutti noi non abbiamo ancora incontrato. Una sorta di premonizione che viene realizzata da “The First Song”, aperta mentalmente e musicalmente, lascia spazio a pensieri futuri e ad accordi successivi orecchiabili in “Our Swords”, la cui chitarra riprende quasi le stesse note di un pianoforte. “The Great Salt Lake” potrebbe accompagnare ciascuno di noi sulle ali di un airone, note libere e fresche che approdano su un carillon del sud chiamato “Monster”, per poi terminare sull’acustica “St. Agostine” impegnata nel farti addormentare, sognare o navigare. E’ un album particolare ma neanche troppo, solitario ma nemmeno tanto, loquace ma silenzioso, è decisivamente un album transitorio. |
Ben Bridwell: Voce e chitarra Anno: 2008 |