Bologna, 04 Giugno 2019 - Teatro Comunale La rivoluzione del ruolo delle donne nell'opera, finalmente affrancate dalla sopraffazione del dominio maschile e sempre più esistenze capaci di determinare con sicurezza i propri destini, aveva raggiunto la sua apoteosi nella Lulu di Alban Berg (1929-35). Ma era una evoluzione già anticipata dalla Tosca (1900) che sovrasta la tirannide maschile attraverso l'omicidio ed il suicidio definitivo. Puccini riesce, tuttavia, a centrare compiutamente questo traguardo nel suo capolavoro postumo e profondamente imperfetto: Turandot. L'opera finale del maestro è la storia di una principessa di ghiaccio cinese sciolta da un amore implacabile; Turandot, erede nello spirito di un'anima violata, mette a disposizione dei pretendenti tre enigmi senza risposta da svelare, pena la morte. Siamo al cospetto di un'opera testamentaria che riunisce in una sorta di apoteosi tutte le componenti del genio di Puccini: il pathos appassionato, controbilanciato da lampi di comicità, l'intensità di un dramma intimo tinto con il fascino misterioso dell'Oriente, l'atmosfera inquietante di leggende fantastiche, tutti elementi chiave in questo monumento dell'arte lirica. Puccini, nel pieno della maturità, rende al massimo grado le possibilità espressive della melodia. Liù, la giovane schiava, incarna l'amore fino al sacrificio supremo, condensa tutte le caratteristiche di queste eroine influenti la cui fragilità e ingenuità sono il segno di una perdita inevitabile. È l'ultima "sorella" di Mimì ne La Bohème e della delicata e troppo fiduciosa Madama Butterfly. Nel terzo atto, Mariangela Sicilia (Liù), offre un’ottima prova, siamo di fronte al vero significato dell'amore in “Tu che di gel sei cinta”, la piena trasfigurazione da creatura timida a feroce mentre rivela la profondità dei suoi sentimenti per Calaf; si delinea un piacevole contrasto con la fredda ed inflessibile Turandot, immersa nella sua nevrotica frigidità. Il completamento a tinta unita dell’opera da parte di Franco Alfano, con il suo precipitoso lieto fine, risulta, tuttavia, ogni volta straniante.
La "Turandot" è un'opera che non lesina sullo spettacolo. Le enormi scene di folla e le rappresentazioni dei mitici palazzi cinesi sono il sogno di qualsiasi regista. Proprio questo sogno viene completamente mortificato dalla imbarazzante regia costruita su visual astrusi, debordanti ed onnipresenti che non sembra scorretto definire prevaricatori per la libertà visiva dello spettatore, ma anche per le sue possibilità di ascolto. Per l’architettura complessiva della Turandot, un'orchestra ed un coro solidi risultano della massima importanza. Si potrebbe addirittura sostenere che il coro incarni un vero e proprio personaggio, una moltitudine di contadini cinesi che commenta e reagisce attivamente agli eventi della trama. Sotto la direzione del Maestro Alberto Malazzi, quest’ultimo si è espresso ottimamente. Il suo suono robusto ha contribuito a far emergere la ricchezza della partitura di Puccini. Nella buca, invece, il direttore Valerio Galli ha condotto una performance variegata, evidenziando l'uso percussivo del ritmo e la varietà delle dinamiche di Puccini; peculiarità molto vistosa durante gli interventi selvaggi del coro per l'esecuzione del Principe di Persia nell'atto I. Galli ha saputo altresì portare alla luce i diversi colori orchestrali del maestro mettendo in buon risalto gli ottoni e proponendo una direzione vigorosa, fedele alla partitura e dal gesto preciso.
Il tenore Gregory Kunde ha cantato Calaf con un tono morbido, caldo e brunito ed una sensazione di controllo straordinariamente rassicurante. La già citata Liù (Mariangela Sicilia) era una delle favorite del pubblico. Il ruolo ed il cantato sono stati declinati con una morbidezza in grado di contrapporrsi egregiamente al potere incarnato dalla figura di Turandot; la sua voce ha una vibrante chiarezza ed una risonanza giovanile che riflette la purezza del personaggio e la sua forza sacrificale. Notevole l’esecuzione di “Signore, ascolta!” dissolta in un pianissimo di grande intensità. Bene anche Hui He (Turandot) che si è rivelata un ottimo soprano drammatico interpretando il ruolo con grande potenza vocale, raffinato timbro e sicurezza negli acuti. In-Sung Sim ha portato pathos e gravità nell’interpretazione di Timur cantando elegantemente e con un tono ben sostenuto e proponendo un tenero addio a Liù nel terzo atto. In un'opera in cui c'è spazio anche per un piccolo rilievo comico, gli Atti I e II sono stati quasi rubati dai ministri del regno, Ping, Pang e Pong (Vincenzo Taormina, Francesco Marsiglia, Cristiano Olivieri); il trio ha retto l’intera coreografia risolvendosi in una agognata boccata d'ossigeno rispetto alla tracotanza delle immagini e proponendo una equilibrata, godibile ed ironica miscela vocale.
Turandot: Hui He Altoum: Bruno Lazzaretti Timur: In-Sung Sim Calaf: Gregory Kunde Liù: Mariangela Sicilia Ping: Vincenzo Taormina Pang: Francesco Marsiglia Pong: Cristiano Olivieri Un mandarino: Nicolò Ceriani Il principe di Persia: Massimiliano Brusco Ancelle di Turandot: Silvia Calzavara/Lucia Viviana Direttore Valerio Galli Ideazione Fabio Cherstich / AES + F Regia Fabio Cherstich Video, scene e costumi AES + F Progetto luci Marco Giusti Maestro del Coro Alberto Malazzi Maestro del Coro di Voci Bianche Alhambra Superchi Orchestra, Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna |
|