Diavolo di uno Steven Wilson! Tacciato di aver pericolosamente virato verso il pop, egli ha recentemente dichiarato a Rolling Stone Italia che "Quando ero un teenager, cioè quando stavo vagamente pensando di avere una carriera nell’industria discografica, i miei eroi erano gente tipo Prince e David Bowie.
Una parte di me quindi ha sempre sognato di essere una popstar e credo che quella parte di me stia ancora fissa su quel sogno. Penso sia qualcosa di naturale. Se fai musica e se soprattutto credi nella tua musica vorresti che raggiungesse più persone possibile. Prendi i Radiohead. Loro non sono a un milione di distanza dal tipo di musica che faccio, eppure chiunque ascolti dischi su questo pianeta ha già avuto la possibilità di ascoltare i Radiohead e stabilire se gli piacciono o meno. Ma nel mio caso ci sono milioni e milioni di amanti della musica che non hanno sentito ciò che faccio. Se mai dovessi avere un qualche tipo di frustrazione, sarebbe legata a questo. Essere ignorati dal mainstream significa che ci sono tante persone che potrebbero essere tuoi fan ma che non hanno modo di conoscere la tua musica. Tutto lì.". Tali dichiarazioni parevano assumere le connotazioni di un pericoloso monito agli occhi dei suoi numerosi ed esigenti fan, così assuefatti al moderno archetipo di prog colto ed elegante forgiato dagli indimenticati Porcupine Tree e da egli stesso, in seno alla sua recente ed apprezzata carriera solista, da rifiutare con convinzione la collocazione del termine "pop" nel dizionario wilsoniano. Ed invece, "To The Bone" non è assolutamente il disco smaccatamente pop che tutti dicono sia, non ricalca (fortunatamente) la becera formula stilistica degli anni '80, contraddice addirittura lo stesso Wilson, laddove non si avvicina minimamente alla stantia e poco evoluta lezione dei Radiohead (che sono, invece, a modesto parere di chi scrive, decisamente collocati ad un milione di distanza dal tipo di musica che Wilson fa e ha fatto in passato). Se c'è un lato pop da condannare in Wilson, esso si cela tra le note delle musiche partorite dai Blackfield, gruppo da lui fondato assieme all'israeliano Aviv Geffen, giunto ormai al quinto album in studio. Quanto al disco qui recensito, lontano dall'essere un passo falso, è semplicemente diversissimo da quanto suonato e composto dall'artista inglese nelle vesti di solista. Ne consegue che, con riguardo alla carriera solista del Nostro, sembra evidente che c'è oggi della insana e copiosa prevenzione, non fosse altro perchè egli nega da anni al suo pubblico un passo falso, purtroppo fin troppo atteso da miscredenti e detrattori. In questo suo ennesimo lavoro solista, quindi, il lato pop, quando (lontanamente e non sfacciatamente) presente, è condito con sterzate improvvise e repentine verso altri generi musciali: in "The Same Asylum as Before", ad esempio, c'è un bridge duro che demolisce letteralmente la dolce melodia portante. Genio nel genio, il bridge viene ripreso una seconda volta, diventando conclusione, pur sfumata in uscita; per non parlare di "To the Bone", forte di una closing section che ricalca abilmente i primissimi liquidi, magnetici Porcupine Tree, gruppo che aleggia, seppur lontanamente in almeno altri 4 brani ("Nowhere Now", "Pariah", "Song of Unborn", "People Who Eat Darkness"). Andiamo avanti: non sembra "Refuge" evocare il Gabriel di "Up" con incredibile efficacia? Provare, per credere, ad immaginarla cantata da quest'ultimo, soffermandosi però sulla considerazione che l'ex Genesis nega ai suoi fan gli assoli magniloquenti e spettacolari di chitarra, tastiere e armonica a bocca che invece contraddistinguono il brano in questione. Può essere considerato pop un brano come "Detonation", 9 minuti nei quali si succedono sonorità oniriche e vaghi effetti elettronici, ove, poi, una ritmica volutamente martellante si alterna ad una liquidità di stampo space tanto inusuale quanto azzeccata? Ed ancora, cosa dire di "Blank Tapes"?, un gioiellino acustico di soffusa e raffinata poesia che esalta le qualità espressive della voce femminile (Ninet Tayeb), peraltro presente in altri brani, sempre con incredibile efficacia. In tal senso, si ascolti la ancora gabrielliana "Song of I", inquietante, nel suo incedere lento, peraltro in coraggioso crescendo di stampo epico nel finale. Alla luce di quanto sopra, pertanto, si possono perdonare gli unici due veri scivoloni dell'intero album: l'assenza di batteristi virtuosi e la banalità di "Permanating", molto Abba e poco Wilson, di qualunque sua incarnazione si parli, un coacervo di improponibili ed imbarazzanti banalità ritmiche e melodiche che, veramente, il nostro poteva risparmiare. |
Steven Wilson: vocals (all tracks), guitars (all tracks except track 9), bass (tracks 1-3, 5, 8 and 11), keyboards (all tracks) Anno: 2017 Tracklist: |