Dopo la parentesi bolognese dello scorso anno, il Gods of Metal torna ad essere organizzato nel luogo che si potrebbe definire la sua collocazione naturale, lo Stadio Brianteo di Monza.
Come da tradizione, all'esterno dello stadio si assiepano vari venditori ambulanti di magliette e le paninerie mobili; naturalmente, anche all'interno sono presenti molti stand per la vendita di bevande, anche se non tutti, purtroppo, sono forniti di pietanze gastronomiche. Risultano ben visibili anche le varie postazioni per la vendita di riviste specializzate, di vestiario ed oggettistica, di LP, CD e DVD, tutte prese d'assalto dai potenziali acquirenti. Tra le più attese novità di questa edizione non possiamo fare a meno di citare la presenza di due grandi palchi montati l'uno accanto all'altro davanti alla gradinata coperta, sui quali si alterneranno i gruppi, ottimizzando i tempi per la preparazione della strumentazione ed agevolando in tal modo il duro lavoro dei tecnici di palco.
Oltre ai giovani, spettatori per antonomasia di qualunque festival, sono presenti anche parecchi adulti, presumibilmente giunti per assistere allo spettacolo dei veterani Heaven and Hell; non passano certo inosservate le numerose ragazze vestite in abiti molto succinti, per un tripudio di minigonne vertiginose, stivali e calze a rete strappate, in omaggio all'altra band principale che si esibirà in serata, cioè i Motley Crüe.
Con un po' di ritardo rispetto all'orario previsto, aprono il festival i The Rocker, che propongono quindici minuti all'insegna di un rock'n'roll duro e trascinante, ma non certo innovativo, dato che il genere è ormai largamente diffuso da decenni. Dopo tre brani piuttosto simili tra loro anche nell'uso dei cori, i milanesi salutano il pubblico, anche se buona parte degli interessati è ancora in coda fuori dai cancelli d'ingresso.
Per recuperare il ritardo, anche gli Extrema sono costretti a ridurre un po' la durata dello spettacolo, che si tiene sull'altro palco. Il gruppo sfodera subito il proprio thrash-core furioso, più orientato verso la ritmica, anche di matrice nu, che verso il solismo, che comunque giunge puntuale quando occorre; dopo un paio di pezzi vibranti, “Money Talks” libera energia ed applausi; seguono la massacrante “This Toy” ed il velocissimo brano finale, per venti minuti di violenza.
Dopo le due mutilazioni di cui sopra, il ritardo è stato recuperato, così Lauren Harris inizia in perfetto orario in modo da rispettare la scaletta prevista, che per il resto della giornata non subirà ulteriori intoppi.
E' ancora rock'n'roll, agghindato con coretti commerciali e con qualche assolo di discreta fattura. A parte la ripetitività di alcune canzoni, il punto dolente è la voce, che, a nostro parere, risulta troppo leggera, inadatta ad un pubblico abituato a sonorità di un certo stampo; se ci è concessa l'invenzione di una terminologia, potremmo parlare di “hard pop”, tenendo a precisare che coniando tale definizione non riteniamo di essere offensivi, né di essere molto distanti dall'evidenza.
Vorremmo sottolineare, però, non tanto il fatto che la figlia di Steve Harris è come un pesce fuor d'acqua in mezzo ai metallari di qualsiasi settore, bensì che farla esibire al più importante festival italiano per il secondo anno di fila (tra l'altro, ad un solo anno di distanza, neppure le formazioni più affermate al mondo lasciano intravedere grandi mutamenti) serve solo a tarpare le ali ad uno qualsiasi dei validi gruppi italiani: questi, infatti, non giungeranno mai ad una ribalta così prestigiosa perchè a loro non viene concesso neppure un millesimo di ciò che, con troppa facilità, viene regalato alla Harris.
Intorno a mezzogiorno appaiono i Voivod, dotati di una voce graffiante e di buona preparazione tecnica: il prodotto dei due fattori dà vita a dei brani che spaziano dalla pesante velocità ai limiti del thrash metal all'orecchiabilità di un hard rock che si tinge di blues, passando per la travolgente modernità di alcuni effetti. Il risultato equivale a sette pezzi ricchi di varietà, per un totale di quaranta minuti non indimenticabili, ma senz'altro interessanti e coinvolgenti.
Mentre il sole gioca a nascondino tra le nuvole, è la volta dei Backyard Babies, che aprono con un rock'n'roll non troppo duro intitolato “Nomadic”; le altre canzoni sono dirette e veloci, adatte all'headbanging: tra queste ricordiamo la massiccia “Degenerated”, che fa saltare parecchi delle prime file. La commercialità, evidentemente, è un po' eccessiva, tanto che qualcuno leva alto il suo dissenso, gridando che quella che abbiamo davanti sarebbe stata una band adatta al Festivalbar, se la celebre rassegna estiva non fosse stata soppressa già dall'anno scorso per via della crisi economica. Non siamo impietosi quanto questo spettatore esasperato e, pur ammettendo che si tratta di una formazione di facile ascolto, riteniamo opportuno considerare che riuscire a far muovere la gente all'ora di pranzo non è per niente facile; nulla di eccezionale dal punto di vista artistico, è vero, ma l'allegria che scaturisce dai ritmi glam dei Backyard Babies è certamente notevole.
Un'intro effettata preannuncia l'inizio del concerto degli Epica, che offrono al pubblico quarantacinque minuti di gothic metal “alla moda”, ben diverso da quello tradizionale, che è equivalente dal lato della qualità, ma nettamente superiore dal punto di vista quantitativo. Gli Epica, infatti, come tutti i gruppi nu gothic sorti ultimamente come i funghi non appena fiutato l'affare, presentano brani dalla struttura abbastanza elaborata, ma pur sempre piuttosto commerciali, visto che sfruttano cori registrati ed una ruffiana alternanza tra voce lirica e growl. In mezzo a vari cambi di tempo, tra raffinata dolcezza ed edulcorata velocità, ricordiamo la lunga, epica “Fools of Damnation”, dai toni orientaleggianti, mentre “The Divine Conspiracy” chiude una prova discreta con un finale sinfonico.
Giunge il momento di Marty Friedman, ex chitarrista dei Megadeth: niente thrash a far da ponte con il passato, visto che la sua carriera solista è improntata su un classic metal interamente strumentale. Non è la solita autocelebrazione da chitarrista, però, visto che i pezzi sono ben strutturati e molto melodici: la chitarra non è utilizzata unicamente in freddi assoli iperveloci, ma funge da parte vocale e solamente quando necessario si lancia in assoli elaborati, ma contestualizzati all'interno del brano, in modo da risultare omogenei con i rimanenti suoni. Prima del finale all'insegna del solismo, ci colpisce un accenno alla celebre “Io che non vivo (senza te)” di Pino Donaggio, canzone nota in tutto il mondo, visto che è stato anche incisa in lingua inglese. Di poche parole sul palco, Friedman preferisce i fatti, donandoci quarantacinque interessantissimi minuti di eccelsa qualità e di intense vibrazioni.
Si passa agli attesi Edguy. Il ritmato “Dead or Rock” è seguito da vari brani in equilibrio tra il power e l'epic metal, sorretti da una discreta prova vocale e da numerosi assoli di chitarra; il cantante fa urlare le persone a turno, dividendole in gruppi distinti in base alla posizione occupata sul prato e facendo così esplodere il loro divertimento. Si passa a “Lavatory Love Machine”, quindi seguono altri veloci pezzi power ampiamente graditi dai presenti, visto che la partecipazione ai cori è molto sentita e di notevole intensità; si conclude dopo circa un'ora con l'applauditissima “King of Fools”. Non siamo tra i più grandi estimatori della band, che a nostro parere è un po' sopravvalutata, però dobbiamo ammettere che sul palco gli Edguy hanno dato tutto e che il pubblico li ha premiati con lunghi applausi, nettamente meritati.
Verso le cinque del pomeriggio sale sul palco Lita Ford; il suo veloce rock'n'roll, accompagnato da tastiere e cori, è di facile presa sull'auditorio, per via di canzoni allegre e melodiche come “Kiss Me Deadly” e momenti più soffusi come la stupenda ballata “Close My Eyes Forever”, che all'epoca venne cantata in duetto con Ozzy Osbourne.
C'è spazio anche per un bis, cioè un brano nuovo, orientato al crossover sia nelle doppie voci che nella ritmica: è vero che non si può vivere solo di ricordi, ma quest'ultimo pezzo appare come uno strategico cambio d'abito tipico del più becero mercato discografico statunitense, che sfrutta l'artista fino all'ultima goccia del suo sangue, come dimostra la tragica fine di Michael Jackson, imbottito di farmaci pur di affrontare un tour che il suo fisico non avrebbe potuto sostenere. Quello portato ad esempio, ovviamente, è il limite ultimo di ciò che può provocare la spietatezza del mercato e la tragedia recentemente occorsa al re del pop non è nemmeno lontanamente paragonabile - né dal punto di vista della gravità dell'evento, né dal lato della risonanza mediatica - ad un eventuale cambio di genere musicale da parte di una cantante meno nota come Lita Ford.
Tornando al concerto, cinquanta minuti di grintoso hard rock d'annata ci hanno certamente regalato un magico tuffo nel passato: finendo di sognare ed osservando l'attualità degli eventi, però, non riusciamo a intravedere il ruolo della Ford in ambito musicale, visto che un suono moderno come quello del bis stride pesantemente con il rock'n'roll degli anni '80 e dei primi anni '90. Per intenderci, non ci sembra molto facile spuntare dopo circa quindici anni di quasi totale silenzio dicendo: “Ragazzi, sono sempre io; sono tornata, ma ora faccio nu metal”; nel frattempo, infatti, i ragazzi di allora sono diventati adulti, mentre in ambito nu metal gli adolescenti di oggi hanno già parecchi idoli.
Si continua con i Queensrӱche, avanguardisti come sempre; in un'ora di spettacolo si susseguono pezzi nuovi e vecchi, imperniati su cori elaborati, effetti futuristici, complesse partiture ed assoli ipertecnici. Durante l'esibizione inizia a piovere, com'era ampiamente prevedibile già da un po', così molti dei presenti si riparano nella gradinata coperta, cercando di occupare gli ultimi posti rimasti per usufruire di una visibilità decente, dato che in alcune zone la visuale è ostacolata dal capannone del mixer: si rivela un'impresa veramente ardua, in quanto i posti più ambiti sono già occupati da varie ore, così ci si arrangia nel modo migliore possibile, accalcandosi in alcuni punti oppure spostandosi quando avverrà il cambio di palco.
Per via di alcuni problemi tecnici, si verifica la brusca interruzione di un'intro particolarmente intensa, così a Geoff Tate “sfugge” un'imprecazione in lingua italiana; il pubblico sorride ed applaude, quindi, risolti i problemi audio, il brano riprende dall'inizio e si rivela molto energico. Altri pezzi utilizzano i fiati, come flauto e sax, che però sono quasi sempre coperti dai volumi degli altri strumenti; l'applauditissimo finale giunge veramente troppo presto, data la qualità del suono, tra parti rarefatte e cadenzate, raffinati effetti e numerosi cambi di tempo. A parte i già descritti problemi audio, quello offerto dai Queensrӱche è stato uno spettacolo di classe elevatissima e di grandiosa professionalità.
Giunge l'ora dei Tesla. La prima canzone “Forever More”, preceduta da un'intro effettata, prosegue ritmata all'insegna del solismo melodico; superati altri intoppi audio, ricordiamo la cadenzata “Breakin' Free”, che sfrutta le doppie voci in modo accattivante. Sfortunatamente per la band, sull'altro palco iniziano le prove dell'impianto luci degli Heaven and Hell e varie volte l'affascinante scenografia illuminata distrae in maniera inevitabile dalla prova del gruppo, dato che il paragone diretto tra i giochi di luce diventa immeritatamente impietoso per i Tesla.
Si comincia a pensare a ciò che sta per accadere, ma nel frattempo si continua con altri brani, come l'allegro “Heaven's Trail (No Way Out)”, seguito da un lento acustico. In pieno stile anni '80, i Tesla sfruttano egregiamente i cori; ci colpisce in modo particolarmente intenso anche un assolo a due chitarre, che ci riporta con la memoria ai bei tempi in cui il rock era simbolo di studio della tecnica musicale anche negli USA, diversamente da quanto avviene oggi, salvo rare eccezioni. Con la cover strumentale di “We Will Rock You” dei Queen e due rock'n'roll piuttosto veloci si chiude un'ora ed un quarto di energico e solido hard rock molto apprezzato, infatti i musicisti vengono premiati con un lungo applauso, come merita una formazione coerente con il proprio passato e con se stessa.
Finalmente smette di piovere, ma si alza una certa brezza, come se nell'aria aleggiasse qualche sortilegio: potrebbe anche darsi, dato che sta per scoccare l'ora degli Heaven and Hell, cioè, per quei pochi che non lo sanno: i Black Sabbath dell'epoca successiva al divorzio da Ozzy Osbourne. La scenografia, del cui fascino abbiamo già accennato, presenta due diavoli posti ai lati di una cancellata, mentre sugli amplificatori si alternano le immagini di croci e diavoli: tutto ciò è posto davanti ad una parete grigia con al centro un monitor sul quale scorrono immagini e filmati simbolici.
Gli effetti dark di “E5150” precedono di poco l'arrivo dei musicisti, tutti vestiti di un elegantissimo nero, che aprono con “The Mob Rules”, arricchita da due assoli di Tony Iommi e con “Children of the Sea”, che cresce lenta, dura, epica; dopo un assolo di Iommi l'avvertimento “Look out!” di Ronnie James Dio chiude la canzone e dà il via agli applausi. Sulle note di “I”, pezzo oscuro ed intenso, scorre un video legato alla copertina di “Dehumanizer”; la nuova “Bible Black”, dall'avvio lento, cresce misteriosamente velenosa. Si continua con una “Time Machine” rallentata rispetto all'originale e, dispiace dirlo, un po' fiacca, fino a quando l'assolo non la risolleva ben oltre la sufficienza. Segue un lungo assolo di batteria, durante il quale ogni movimento di Vinny Appice viene osservato in un impressionante silenzio, che si scioglie in un fragoroso applauso; la nuova “Fear” si presenta piuttosto aggressiva, sorretta da una buona prova vocale.
Si torna a quasi trent'anni fa con “Falling Off the Edge of the World”: l'atmosfera iniziale si evolve in doom, quindi il brano prende velocità grazie ad un altro assolo di Iommi, mentre Geezer Butler si avventa sul basso, in linea con il suo inconfondibile stile (teniamo a ricordare che tale muro sonoro è realizzato con una sola chitarra, quando molti gruppi, pur utilizzando due chitarre, non raggiungono gli stessi livelli di intensità). La nuova “Follow the Tears” sfrutta degli effetti in avvio, seguiti da un doom malsano: un'altra ottima prestazione di Ronnie James Dio, che sembra esaltarsi particolarmente nell'interpretazione dei nuovi lavori, anche se ogni canzone è stata affrontata con personalità e professionalità. L'attesissima “Die Young”, aperta da uno Iommi il cui suono provoca la pelle d'oca, è eccellente, sia nella parte più trascinante che in quella più rarefatta.
L'immagine della celebre copertina con gli angeli che fumano introduce “Heaven and Hell”, molto apprezzata dal pubblico, che inizia un coro d'apertura: la canzone è cadenzata ed ipnotica, mentre sullo sfondo scorrono immagini di croci celtiche e di meravigliose statue di angeli. Successivamente il brano si fa più duro, con dei riusciti duetti tra voce e chitarra, quindi un assolo blues dilata il capolavoro, portandolo ad una durata di oltre dieci minuti; assistiamo ad una conclusione veramente infernale, sia per via delle fiamme proiettate sul monitor, sia per i fumogeni rossi che da sotto il palco vengono sparati verso l'alto.
E' l'apoteosi, ma c'è ancora spazio per un bis: purtroppo viene solamente accennata “Country Girl”, limitandola alla prima strofa, per lasciar spazio alla veloce “Neon Nights”, che chiude un'ora e mezza di grande spettacolo e di insuperabili emozioni. Non possiamo che constatare che i Maestri sono ancora in forma e che tante formazioni hanno senz'altro da imparare da questi musicisti come magari qualcuno malignamente potrebbe insinuare, in età da pensione.
Può sembrare assurdo che dopo un'esibizione di tale spessore manchi ancora una band, comunque intorno alle 23 i Motley Crüe iniziano con un dolce suono di carillon, presto interrotto dalla travolgente “Kickstart My Heart” e dal rock'n'roll di “Wild Side”, sostenuto dai cori e da un discreto solismo nel finale; ancora i cori marcano “Shout at the Devil”, mentre sul monitor scorrono immagini del vecchio presidente statunitense George W. Bush, probabilmente non per caso. Segue la nuova “Saints of Los Angeles”, più pesante, ma sempre all'insegna di un orecchiabile rock'n'roll. Dopo un lungo solismo d'avvio di Mick Mars, non certo di qualità sopraffina come quello di altri suoi colleghi, bensì volutamente “sporco”, giunge una “Live Wire” particolarmente potente; nel frattempo, Tommy Lee beve Jägermeister e lo offre agli occupanti delle prime file, probabilmente non solo per esigenze di spettacolo, ma anche per far rifiatare se stesso e gli altri.
Si continua con il nuovo mid-tempo “Motherfucker of the Year”, orecchiabile e pieno di effetti, mentre sul monitor assistiamo ad un inusuale conteggio, in cui gli anni scorrono dal 2000 al -666! Durante la melodica “Don't Go Away Mad (Just Go Away)” vengono lanciati palloncini gonfiabili sui presenti; sulle note di “Same Ol' Situation” scorrono alcuni video sulla globalizzazione e sul controllo del pianeta, intervallati dalle consuete donne nude che si concedono ad esponenti del potere: argomenti attualissimi anche in Italia, date le ultime squallide vicende legate alle cosiddette “veline”, ma un po' ipocriti, a nostro parere, visto che ad aver costruito tutto ciò è proprio il sistema americano, di cui i Motley Crüe fanno parte fino al midollo.
A Nikki Sixx spetta la presentazione della band, seguita da “Primal Scream” e dal rombo di motocicletta che introduce “Girls, Girls, Girls”, oltraggiosa ed aggressiva come sempre; senza un attimo di pausa viene proposta “Dr. Feelgood”, segnata da un assolo massacrante. Viene concesso un solo bis, cioè la meravigliosa e romantica “Home Sweet Home”, per una inconsueta conclusione al pianoforte, intelligente variante ad un settore da sempre molto schematico. Quando pensiamo che tutto sia finito, assistiamo al personalissimo saluto di Tommy Lee, che si esibisce in un rap abbastanza fuori luogo, invitando i fan ad urlare il nome dei suoi compagni al suo comando: “When I say Motley / you say Crüe; when I say Vince / you say Neil...”
Più di una persona è rimasta scontenta dell'esibizione del gruppo: in particolare, in molti hanno puntato l'indice contro la loro presunta fiacchezza, ma anche verso una conclusione anticipata di un quarto d'ora rispetto al previsto. Al contrario, chi scrive non riesce ad essere così feroce, anche se è vero che gli Heaven and Hell hanno lasciato un ricordo molto più marcato e non solo per il genere proposto, che, senza offesa per nessuno, è ben più complesso rispetto al semplice glam metal.
A nostro parere, comunque, i Motley Crüe hanno fatto tutto ciò che era nelle loro attuali possibilità. Non sono più gli anni '80 e non si può pensare di essere credibili nell'apparire selvaggi, rissosi e stradaioli dopo essere passati da tante trovate pubblicitarie e commerciali spesso di dubbio gusto: come dimenticare i feroci insulti scambiati con Vince Neil e la sfortunata parentesi con John Corabi, immediatamente rinnegata al calare dei consensi e, conseguentemente, del denaro? Come non ricordare le innumerevoli ed oziose vicende scandalistiche di Tommy Lee e Pamela Anderson, grazie alle quali qualunque casalinga pettegola conosce la vita privata del batterista, ignorandone totalmente la carriera musicale? E che dire dell'imbarazzante svolta rappeggiante compiuta con i Methods of Mayhem dallo stesso Tommy Lee, che dopo alcuni anni torna all'ovile del glam con uno stile da perfetta verginella innocente, come se avessimo dimenticato le bottigliette che gli vennero lanciate contro proprio mentre suonava sul palco del Gods of Metal?
Per quelli che, come noi, non avevano mai visto i Motley Crüe in azione in passato per problemi logistici, non è facile parlare di un concerto non riuscito, visto che è stato energico e divertente, in linea con le aspettative di una serata glam metal. Se fossimo stati al massimo nei primi anni '90, forse avremmo parlato di una prova storica; l'epoca d'oro, però, è irrimediabilmente finita, un po' per fattori anagrafici e temporali, ma anche e soprattutto perchè l'heavy metal, nel frattempo, si è sviluppato in ben più di una direzione.
Tirando un bilancio provvisorio a fine giornata, ci lascia un po' perplessi il fatto di essere stati sommersi da un'enorme quantità di rock'n'roll che, se all'inizio può far divertire, dopo un po' comincia a saturare chi non è un accanito seguace del settore; a nostro parere personale, un gruppo doom, black o thrash metal avrebbe spezzato un po' il ritmo e sarebbe stato molto gradito.
Ci sembra interessante porre all'attenzione del paziente lettore anche un'altra considerazione: The Rocker, Laureen Harris, Backyard Babies, Lita Ford, Tesla e Motley Crüe nello stesso giorno, a prescindere dalla qualità e dalla quantità espresse sul palco, di cui abbiamo già scritto negli spazi rispettivi, non sono un po' troppi per essere una scelta casuale? Forse è un periodo di revival dell'hard rock e del glam metal, visto che, durante la crisi del capitalismo, è umano cercare di divertirsi e di dimenticare i problemi, appoggiandosi ad un genere allegro e spensierato come il glam. Possibilmente, però, è in corso una nuova manovra commerciale, che parte dagli USA e si estende all'Europa, che equipara il mercato discografico a quello economico: dopo il fallimento di un utopistico mercato senza regole e l'assalto opportunistico alle teorie keynesiane, potrebbe essere diventato evidente che anche il rock deve possedere un'anima tecnica e non solo poggiare su una ritmica incontrollata o addirittura priva delle regole fondamentali, come è avvenuto sciaguratamente dalla nascita del grunge in poi. Infine per quanto riguarda tutte le considerazioni riguardanti l'organizzazione, la logistica ecc ... rimandiamo il lettore alla conclusione del report della seconda giornata.
Data: 27/06/2009
Luogo: Monza - Stadio Brianteo
Genere: Metal