Il decennale della pubblicazione di “Religious as our Methods”, opera prima dei Deviate Damaen, ci fornisce l’occasione per ascoltare per la prima volta l’album, piuttosto complesso, secondo lo stile a cui ci ha abituato il gruppo; in questa versione ristampata, però, rispetto a quella originale è presente un brano in più, di cui scriveremo a tempo debito.
Come da tradizione, il disco, che fin dal nome e dalla copertina - piuttosto critica verso la religione – è tutto un programma, dura poco più di cinquanta minuti e si apre con un lungo pezzo, di oltre venti minuti, basato su ciò che potremmo definire “immagini e visioni in musica”: com’è evidente fin dal titolo, “Nec sacrilegium, incesti gratia!” tratta un argomento come l’incesto, difficile da trattare senza cadere nel volgare o nel morboso. I Deviate Damaen, abilissimi nel districarsi tra i rovi del problema, scelgono di iniziare la canzone con alcune considerazioni sul peccato, mostrandoci un uomo che si confessa. L’uomo racconta che, rimasti orfani di entrambi i genitori, lui e la sorella furono ospitati in un monastero, dove ancora vivono; loro abitudine serale era la recita del rosario, con lo scambio reciproco dell’oggetto religioso. Una notte l’uomo si rese conto che il rosario era stranamente bagnato e, alzandosi per capire il motivo dell’inconsueto fenomeno, vide che la sorella, ampiamente sporca di sangue, supplicava di ricevere il rosario: l’immagine, piuttosto forte, è probabilmente ispirata alla celebre scena del film “L’esorcista”, anche se, secondo noi, indica semplicemente impulsi fisico-psichici e non di possessione diabolica della donna. L’uomo decise così di immolare la propria verginità a Dio, per pietà verso la sorella, commettendo così “incesto, ma giammai sacrilegio”: è senz’altro la scena madre, certamente da choc, ma pur sempre portante della “visione in musica”. Il prete confessore, fin troppo conciliante e sereno (come se quella appena ascoltata fosse una vicenda di tutti i giorni!), ricordando in modo rituale, ma poco opportuno, che il Signore è misericordioso, consiglia di chiedere al Padre superiore, responsabile del monastero, di farsi alloggiare in una stanza separata e di allontanarsi un po’ dalla sorella, perché tale situazione potrebbe condurli all’insanità mentale. Alla profonda perplessità dell’uomo nel rompere il vincolo, che per lui non è certo violento, ma solo spirituale, voluto da una decisione divina, il prete risponde seraficamente che è stato soltanto un errore; l’uomo, iniziando a piangere, non riconosce il suo gesto, ripetuto quasi ogni notte, come un peccato, ma solo come un atto d’amore voluto da Dio. Rassegnazione davanti all’evidenza dei fatti o assoluta strafottenza da parte del sacerdote? Non è facile capirlo ed ognuno può interpretare come meglio crede il brano, che, secondo noi, va visto semplicemente come l’esposizione descrittiva, anche se in modo originale, di fatti da sempre avvenuti; è senz’altro bene parlarne, piuttosto che tacere per falso pudore, per ipocrisia o per omertà, anche se, effettivamente, non è roba allegra, ma di gran lunga drammatica, senza voler essere inquisitori verso l’altrui comportamento né approvare atti di tale specie, situazioni complesse, giudicabili solo da chi ne è protagonista, suo malgrado. Verso gli otto minuti parte la musica, con un ritmo solenne; poi, come una scarica elettrica, una chitarra effettata accompagna un misto di rabbia, frasi di protesta in italiano, inglese e latino, preghiere, campionamenti, un coro di oranti, la breve descrizione di un rogo per una strega. Intorno ai quattordici minuti la batteria si fa avanti per accompagnare un assolo di chitarra fluido e veloce; subito dopo riprende, per pochissimo tempo, la confessione di prima, presto interrotta da suoni di vetri rotti, risate, invettive politiche in inglese. Dopo un altro assolo, per il coinvolgente finale lo spazio è lasciato ad un pianoforte, dapprima solenne a scandire il tempo, poi classicheggiante, veramente ben suonato. Nel secondo pezzo, “Lyturgical obsession”, per forza di cose molto più lineare del precedente, si mescolano inizialmente effetti di vento ed organo liturgico, quindi la chitarra dà il via ad un rock dagli spigoli smussati, con voce gutturale; un momento di tranquillità creato da un effetto di pioggia e dalla voce sussurrata, poi il rock riprende, con un assolo e gli effetti finali. “Under the elation’s drape (of my nobility)”, che dura circa otto minuti (le altre canzoni sono di media durata), è ben supportata dalle tastiere, in crescendo per circa due minuti, fino all’inizio del cantato. Atmosferica ed apocalittica, adattissima come musica da film; dopo cinque minuti davvero interessanti, la chitarra interviene con il suo arpeggio ed il cantato si trasforma: non più urlato, ma recitato, d’altri tempi, caratterizzato da passaggi simili, con le dovute proporzioni, a quelli di Paul Anka in “You are my Destiny” o di Frankie Avalon nella colonna sonora del film “Grease”. Torna il raffinato rondò di tastiere, ancora atmosferico, per un finale leggermente più accelerato ed aggressivo. “I want hate!” inizia con il sottofondo di “Love is Real” di John Lennon, presto violentato da una chitarra e dal conseguente rock anni ’80 digitalizzato, in cui spiccano un paio di validi assoli, mentre “White venus” è la cover del celeberrimo brano disco di Bananarama, più veloce dell’originale, visto che i musicisti hanno radici negli ambienti del gothic metal, anche se in questo CD il metal è ormai superato e fa posto ad un rock contaminato dalla sperimentazione elettronica. In “Un mondo senza stelle” la musica serve solo da supporto per la protesta: il pezzo, racchiuso tra le tastiere iniziali e la malinconica chitarra conclusiva, è un monologo sulle stelle, viste poeticamente secondo il significato cosmico, ma anche sotto l’allegoria dove per “stella” s’intende chi è famoso. La denuncia è certamente personale, presumibilmente autobiografica, per certi versi condivisibile, senz’altro scomoda, come qualunque voce fuori dal coro: la critica - feroce, sebbene esposta con una certa tranquillità vocale - è rivolta verso chi non è capace di star solo, di pagare il prezzo di idee difficili da digerire, di differenziarsi da un branco di pecore, di restare lontano da applausi “ebeti e stolti”, dal lecchinaggio ai magnati o dall’eccessivo potere dell’immagine, nefasto pensiero dominante al giorno d’oggi, dove, se non sei bello, non vali niente e non vai avanti, non solo nel mondo dello spettacolo, ma ormai, spesso, anche in ambito di lavoro più comune, dove è richiesta bella presenza anche per mestieri che un tempo non la richiedevano e per cui, francamente, non ci sarebbe alcun bisogno. Riportiamo una frase in particolare, che ci richiama alla mente echi danteschi o, per restare ai giorni nostri, alcuni momenti della poetica di Fabrizio De Andrè, visto che possiede la forza necessaria a stimolare riflessioni e reazioni: “Quando anche i mediocri avranno capito che vale più un plauso d’avorio che cento al letame, allora usciremo a riveder le stelle”. Anche in questo caso, lasciamo ogni interpretazione all’ascoltatore dell’album o al lettore di queste poche righe: noi ci limitiamo all’applauso per i Deviate Damaen per il coraggio avuto nel sostenere tesi così scomode, lontane anni luce dal mondo dello show business, senza considerarle idee folli (di certo spesso capita al gruppo di sentirsi dire parole simili), ma soltanto opinioni da rispettare, anche quando non sono condivise, non da censurare a tutti i costi. La chiusura, come scrivevamo all’inizio, è affidata a “No more”, nuovo singolo composto per il decennale: una house un po’ più raffinata, ballabile, con vari cambi di ritmo, fino al delirio finale, a nostro avviso fuori luogo, non tanto per il genere scelto, che per noi non è neppure degno di essere chiamato “musica”, ma soprattutto perché fuori posto, dato che, a nostro giudizio, il brano di denuncia precedente meritava il gran finale e l’ovazione conseguente. Non sta a noi, ovviamente, decidere le scalette e sostituire gli artisti nelle loro scelte, ma l’inserimento di un pezzo del genere si riflette su di noi quasi come un pugno allo stomaco, anche se, a questo punto, ci sorge il dubbio che i Deviate Damaen lo abbiano fatto per spiazzare ancora una volta l’ascoltatore. I perbenisti, veri o falsi che siano, avranno smesso di leggere questi commenti già da un pezzo; ai più aperti di mente ed agli amanti delle sonorità rock anni ’80 e delle sperimentazioni elettroniche, a cui va rivolto l’ascolto del CD, dopo esserci scusati per la nostra prolissità, ricordiamo che un album ricco e vario provoca sempre spunti e temi di discussione e va, pertanto, trattato nella sua interezza: raccomandiamo loro, in conclusione, ampia e ponderata riflessione, prima della condanna o dell’assoluzione della band, sia dal lato musicale che dal punto di vista dei testi. 80/100
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Gabriel Svenym Volgar dei Xacrestani: Voce Anno: 1997/ ristampato nel 2007 con l'aggiunta di un brano Sul web: |