Ci sono voluti dei mesi per stilare e rendere pubblica questa recensione.
Non perché questo nuovo disco dei serpenti bianchi (uscito la scorsa primavera), capitanati dal mai domo David Coverdale, sia un disco di difficile assimilazione, ma semplicemente perché non ero certo dei miei sentimenti reali su questa nuova opera del leggendario vocalist per impostare nei tempi giusti una valutazione. Mi domandavo, posso stroncare un manieristico album di uno dei gruppi leggendari dell’hard rock mondiale? Lo posso fare sulla base della sua semplicità e obiettiva scontatezza nonostante l’ugola del’ex Deep Purple sia ancora tra le migliori in assoluto in campo rock? Alla fine, dopo aver passato molte notti insonni, la risposta è stata: sì, lo posso fare. Non me ne voglia chi è riuscito ad amare questo Good To Be Bad, per il sottoscritto è sempre difficilissimo analizzare gli album delle vecchie glorie dell’hard senza mai combattere col proprio cuore, ma queste 11 tracce qui raccolte, aldilà di una classe compositiva innata, non sanno né di carne né di pesce. Non basta un’opener al vetriolo come “Best Years” a cercare di rinverdire i fasti migliori degli anni ’80 per essere contenti, così come sinceramente non è sufficiente farsi prendere dallo spigoloso riff di chitarra ad opera di Dough Aldrich in “Can You Hear The Wind Blow” per essere sazi. A differenza dell’ultimo degli Ac/Dc ad esempio, a questo album manca la verve, il tentativo quantomeno di stupire, la voglia almeno nelle intenzioni di mettersi in gioco. Non rischiano niente i Whitesnake, nemmeno quando partono i quasi 6 minuti dalla ballata “All I Want All I Need”, troppo simile nel suo incedere al classico “Is This Love” per non essere paragonata ad essa, così come è piatta e noiosa la title track a metà raccolta. La voce di Coverdale sembra non risentire dell’usura del tempo, con ancora una forza interpretativa notevole, facente la differenza in brani come “Summer Rain”, che cantati da un altro forse non meriterebbero più di due ascolti. Tra gli episodi salvabili è giusto menzionare però, il gospel\blues di “Lay Down Your Love” e la conclusiva ed acustica “‘Till The End Of Time”, simil country che risulta essere alla fine l’unico diversivo piacevole e fresco del lotto. La chiosa è dedicata alla produzione, davvero scialba per accentuare la potenzialità di una band che spesso funge da mero accompagnamento, così come il mixaggio sembra essere approssimativo e di basso profilo per un prodotto del genere. Il rettile questa volta, non è riuscito a dare il morso mortale, ma ha solo addormentato la preda. 50/100
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David Coverdale: Voce Anno: 2008 Sul web: |