Non è facile essere una delle band di punta della scena metal mondiale. La creazione di questo sesto disco non dev’essere stata semplicissima per Sanders e compari. Le pressioni e le aspettative hanno iniziato a farsi davvero pesanti dopo Blood Mountain e Crack The Skye: un filotto di quattro dischi clamorosi tra il 2002 e il 2009 ha portato il Mastodonte in cima alla montagna del metallo, ma una volta lassù qualcosa ha iniziato a scricchiolare. Il disco del 2011, The Hunter, era sintomatico del rigetto di responsabilità e ridimensionamento delle ambizioni: quel disco non era affatto brutto e col tempo si è dimostrato abbastanza solido, ma dopo una “The Last Baron” era difficile accontentarsi di pezzi standard di 4 minuti, senza la minima traccia di prog. Tornare ad una forma canzone più accessibile e immediata è la linea guida principale del nuovo corso post 2009: non che il dischi precedenti si impelagassero in strutture particolarmente complesse e cervellotiche, ma un notevole gusto per la variazione dei temi e per la costruzione di campate ampie aveva fatto le fortune della band, soprattutto col terzo e quarto album. La pregevolezza delle canzoni era data dalla coesistenza bilanciata e in costante evoluzione di istanze hardcore, incisività e qualità dei riff, buongusto melodico, una forma canzone sempre altamente compiuta ma che sapeva prendere il meglio del progressive per arricchire un suono già ricco di per sé. Questa apertura a strutture più ambiziose raggiungeva il suo apice in Crack The Skye, ma lì si fermava per eclissarsi del tutto nel successivo The Hunter. L’album del 2011 poteva essere interpretato come un momento di ricreazione e svago dopo un tour de force creativo evidentemente sfiancante, ma con questo nuovo episodio tutti si aspettavano il ritorno a qualcosa di più impegnativo, un passaggio evolutivo importante dopo la stasi rigenerante di tre anni fa. Non è un caso che la band sia stata lungamente impegnata nella produzione di Once More ‘Round the Sun, forse la più lunga della sua storia. Le aspettative in parte sono deluse: le canzoni si mantengono su strutture snelle, i ritornelli sono ancora più catchy, niente strumentali o sfuriate hardcore, ma le differenze col disco precedente non sono poche e vanno analizzate. Rispetto alle canzoni di The Hunter abbiamo sicuramente un sovraccarico sonoro nuovo: i pezzi non sono dilatati strutturalmente, ma il tessuto sonoro è gonfiato grazie ad una costante stratificazione che sovrappone le abilità tecniche di Hinds e soci, invece che giustapporne i vari pirotecnici arzigogoli. Tutti i pezzi suonano a pieno regime, dal primo all’ultimo secondo: sono 11 bordate sonore notevoli anche grazie alla produzione eccellente di Nick Raskulinecz. Va anche detto che questa scelta è la più furba perché permette di minimizzare i passaggi esclusivamente strumentali e progressive, amplificando invece le parti cantate, senza però perderci nel computo finale delle diavolerie di chitarra, basso e batteria: tutto è sovrapposto, non manca niente. I fan meno esperti ne apprezzeranno la facilità melodica, gli altri la stratificazione estrema. Non c’è niente di nuovo, solo una differente gestione delle risorse e una migliore selezione del materiali. Non c’è spazio per divagazioni o giochini estemporanei, tutti i pezzi sono caricati a molla per suonare potenti, orecchiabili, incalzanti, granitici. Ecco l’altra differenza col predecessore, non ci sono grandi escursioni stilistiche tra i pezzi: non troverete la ballata dark, la cafonata southern (“Curl of the Burl”) l’esperimento quasi glam (“Thickening”), la concessione puramente pop metal (“Dry Bone Valley”), la scheggia impazzita (“Spectrelight”) o il finale affrescato con delicatezza (“The Sparrow”). No, qui ogni pezzo contiene in sé tutta l’essenza dell’album, ne riassume precisamente i connotati finali: questo porta da una parte il vantaggio di non avere passaggi a vuoto come “Creature Lives” o momenti di scarso interesse (“Octopus Has No Friends”, “All the Heavy Lifting”), ma al contempo il saliscendi stilistico-emozionale è poco o nullo, soprattutto ai primi ascolti. C’è una grande uniformità di suono, di tempi, di forme, di timbri. Siamo di fronte quasi a un monolite inscalfibile, troppo intrecciato in se stesso e coeso per permettere una fruizione rapida: proprio l’opposto di Crack The Skye, che invece dilatava le maglie per rendersi massimamente comprensibile e assimilabile. O meglio, i Mastodon mettono in evidenza ciò che vogliono dei vari pezzi, lasciando nelle retrovie un tappeto sonoro-ritmico in realtà complessissimo e inestricabile, da sondare poco a poco. Once More ‘Round the Sun richiede molta pazienza per essere capito fino in fondo e apprezzato appieno, è una matassa da sbrogliare. Le ritmiche di Dailor non svolgono tanto una funzione strutturante, ma continuano a fare da riempitivo sonoro, si intrecciano al riffing sempre sostenutissimo degli altri tre in un pastiche sfiancante per chi non è abituato. I cambi di tempo e altre combo ci sono, ma i tempi di Dailor sono talmente complessi da risultare quasi una campitura, una fascia cromatica nel gioco di stratificazioni che domina l’opera. I tempi sono così instabili da perdere quasi la loro funzione metrica, di misurazione ritmica. La canzoni sono solide, ma soprattutto nella prima parte non troviamo particolari invenzioni: ormai sappiamo che la melodia e il canto pulito vanno per la maggiore, non ci stupiamo più, ma forse qualche ritornello poteva essere pensato meglio. Quello del primo singolo è sfrontato nella sua ruffianeria ma col tempo lo si accetta, altri invece sono proprio mosci, come quello di “Chimes at Midnight”. Abbiamo nuove chicche pop metal come “The Motherload” che tocca note dolciastre davvero notevoli (molti ne soffriranno) ma nel complesso tiene benissimo e anzi rappresenta forse una delle vie più interessanti del nuovo corso, se pensiamo anche a “Dry Bone Valley” e alla stupenda “Thickening”. I timbri dolci di Brann si stagliano sfavillanti sulla muraglia sonora imponente del pezzo, in un’alchimia deflagrante che tutto assorbe e fagocita. Il filone si nutre anche dei timbri ovattati di “Asleep in the Deep”: il gioco si arricchisce con un riff acidulo che stride sul tappeto morbido e misticheggiante della melodia. Dicevo, la prima metà del disco è sicuramente la meno interessante, seppur nel complesso godibile: sono qui situati i due singoli, non da buttare ma ben distanti dai fasti di una “Divinations” o “Colony of Birchmen”: l’icasticità delle strofe di “High Road” deve scontare un debito verso illustri predecessori e risulta per questo un po’ falsa, troppo studiata a tavolino. “Chimes at Midnight” è furibonda ma si deprime nel ritornello. Il grandeur epico dell’iniziale “Tread Lightly” è imponente, ma in parte smorzato da alcune tonalità canore fuori luogo, scotto che ad esempio “Black Tongue” non pagava, pur essendo ben più retorica. Ripeto però che qui si ricerca quasi ossessivamente l’uniformità: se il disco deve suonare melodico e con canto pulito, ogni pezzo deve rispondere a questo dettame generale. Tanto meglio allora i brani che questa vena melodica la mettono in primo piano senza giochetti furbeschi. Ciò che permette al disco di fare il salto di qualità è sicuramente la seconda parte e più specificamente gli ultimi quattro pezzi. Lì Sanders e compari si lasciano alle spalle il dovere (sfornare singoli metal accessibili ecc.) e si lanciano finalmente in qualcosa di nuovamente ambizioso, di complesso e stordente. “Aunt Lisa” è tra le cose più dissonanti: sulla consueta struttura granitico-orecchiabile si innestano elementi eterogenei, distorsioni elettroniche, sfuriate nevrotiche, eco cupe e un inaspettato coretto da cheerleaders in acido (le Coathangers) che chiude beffardamente un pezzo davvero indefinibile. Sulla solita immancabile base i Mastodon divagano anarchicamente e creano un ibrido kitch metal assurdo. “Ember City” amplifica al massimo il divario timbrico tra la voce di Dailor e quella di Sanders, accostando i rigurgiti cavernosi del bassista ai vocalizzi cristallini del formidabile batterista. A quel punto si parte per la tangente con due minuti buoni di assoli di chitarra e basso. “Halloween” farà la felicità di molti fan di vecchia data; il pezzo gode di un riffing mostruoso (a tratti ci si avvicina al basso di “Divinations”, brividi) e deraglia infine in una coda strumentale cattivissima, degna delle migliori sfuriate animalesche di Leviathan. C’è quella sensazione di briglie sciolte che dopo tanti calcoli e limature di suono fa godere come pazzi. La conclusiva “Diamond in the Witch House” è manco a dirlo il diamante del disco: uno scenario horror, una scena del crimine alla True Detective: la voce ruvida e aspra di Scott Kelly arriva come una benedizione dal cielo dopo tanti ritornelli agrodolci. In effetti il brano è prima di tutto il trionfo di Scott e fa pensare ancora una volta a cosa avrebbero potuto essere i Mastodon con un cantante veramente potente e temibile, soprattutto in sede live. La seconda metà di “Diamond” è un’apnea devastante, una chiusura terrificante, un incubo a occhi aperti, una “Through Silver In Blood” asciugata e pompata di steroidi. L’album insomma non riporta ai fasti di Levithan - Blood Mountain - Crack the Skye; il meglio in fase compositiva è già stato dato, la lucidità di scrittura e la visione d’insieme di quei dischi sono ormai irraggiungibili. I nostri mantengono intatte le capacità di partorire riff stupendi e melodie di qualità, sanno gestire benissimo le loro risorse: a differenza di The Hunter hanno avuto però la pazienza di lavorare a lungo sui pezzi per arricchirne i costrutti. In origine la natura delle canzoni non è molto dissimile, basata fondamentalmente su strutture semplici, architetture minimali e prive di ampie campate, ma qui si sente il lavoro di stratificazione che gonfia il suono fino a risultati stranianti quale “Aunt Lisa” o l’eterogenea “The Motherload”. Certo, se mi avessero sfornato un disco progressive metal puro avrei goduto di più, ma una volta assodato che la semplificazione è la via maestra, queste cosette base-base non sono affatto male. 70/100
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Troy Sanders: basso, voce Anno: 2014 |