Ascoltando “Wolf Song”, difficilmente si possono immaginare i percorsi tortuosi che hanno portato Patrick Wolf ad incidere dischi e diventare probabilmente il cantautore principe dell’ultimo decennio. Il ragazzo londinese infatti non poteva scegliersi nome d’arte migliore; la sua vita è stata per anni sregolata, girovaga, priva di un domani, da cane bastardo, ai margini della società.
Se ne va di casa a sedici anni e si guadagna da vivere suonando per strada. A Parigi qualcuno si accorge di lui ed ecco che nel 2003, all’età di vent’anni, il nostro Patrick pubblica il suo disco d’esordio: Lycanthropy. Saggiando le melodie giovanili e dolcissime dell’esordio si fa fatica tuttavia ad immaginarselo per strada; risulta assai più facile pensarlo in conservatorio. Questo perché fu costretto ad una preparazione musicale classica, violino e coro, pur essendo appassionato di elettronica. Questa impronta rimane indelebile nel suo stile compositivo e si palesa soprattutto nelle melodie misurate, rigorose, a tratti liturgiche, si veda “Who Will?”. Il lavoro del 2003 è un debutto magnificamente immaturo, di una sincerità debordante, che ci indica fin da subito le coordinate musicali dell’artista. Una Folktronica passionale, capace di oscillare tra episodi delicati e quasi sussurrati (“Pigeon Song”) e spudorati quanto irresistibili ritmi elettronici ( “Bloodbeat”), oppure mescolando le due componenti come in “To The Lighthouse” e “Lycanthropy”. Questo binomio, pur evolvendo e mescolandosi, sarà sempre presente nell’opera del cantautore. Volendo fare una forzatura, mi piace leggere questa dicotomia come il punto d’incontro tra i valori della famiglia, da Patrick mai completamente accettati ma comunque entrati a far parte del suo bagaglio culturale, e le spinte centrifughe che lo hanno portato lontano dalla sua Londra. Lycanthropy è pieno di spunti ed emozioni, ci mostra un uomo ancora non completamente maturo (“A Boy Like Me”, “Peter Pan”) ma un artista già pienamente capace. La bellezza irripetibile del disco sta proprio nel suo essere opera ingenua, non progettata, tumultuosa, emotivamente instabile, ma d’una creatività debordante. Non c’è una mediazione, è talento purissimo che si esprime nelle sue dolcezze e nelle sue asperità. A livello di scrittura, emergono nitidamente le abilità straordinarie del ragazzo, capace di creare brani complessi e tirati come la lunatica “Paris” o la nevrotica “The Childcatcher”, così come colorati divertissement (“Don’t Say No”) e raffinatissime ballate introspettive (“Demolition”). I riferimenti autobiografici sono ben presenti e contribuiscono a rendere l’opera sentita e pregna di emozioni; il pathos di “London” ne è un chiaro esempio.
Il secondo lavoro si lascia alle spalle questo approccio fortemente emotivo e personale per trovare una dimensione poetica stabile. Wind In The Wires ci presenta un Patrick maturato come uomo (banalmente, il timbro della voce) e come artista. La freschezza adolescenziale e l’immediatezza dell’opera prima lasciano il posto ad una scrittura più riflessiva ed ombreggiata (“Ghost Song”), frutto di una più accurata fase elaborativa. Se da un lato perdiamo la brillantezza un po’ sfacciata delle prime produzioni, dall’altro troviamo un’opera più solita e durevole, ricamata con finimenti preziosi, meno autobiografica e forse per questo più bilanciata, omogenea, focalizzata. Se Lycanthropy era la sintesi dei movimentati anni della giovinezza, un diario di vita, il secondo album è la riformulazione matura degli elementi sparsi caoticamente qua e là nel lavoro precedente. Superati i travagli del crescere, si può finalmente guardare al futuro. Il mood si mantiene tenebroso e meditabondo per quasi tutte le tredici tracce, le melodie declinanti (“Wind In The Wires”) si intrecciano ad un denso tessuto sonoro, fatto di strumenti classici come pianoforte e archi ed arricchito qua e là da pennellate elettroniche. È però un’elettronica sorniona, d’atmosfera, i ritmi sintetici dell’esordio sono stati sostituiti da suoni liquidi che aderiscono alle geometrie dei brani, otturando le falle dovute alla sezione ritmica spesso (volutamente?) pigra (“Jacobs Ladder”). “Teignmouth” esemplifica bene lo stile dell’opera: un ondeggiare malinconico e reiterato, attraverso panorami musicali austeri. Il folk puro è scomparso, in favore di ballate ibride, dal tono luttuoso. La scrittura è maggiormente accurata e raffinata: non è da tutti comporre brani come “The Libertine”, elegante inno alla libertà giocato su suoni vellutati e magistrali cambi di tono, o “Tristan”, poderosa esplosione di vitalità, o ancora la sinuosa “The Railway House”, scritta divinamente e cantata anche meglio. È la conferma che Patrick Wolf ha grandi qualità e soprattutto ha saputo tradurre l’ispirazione virulenta e caotica dei suoi anni randagi in costanza e coerenza artistica, convincente anche nei suoi momenti di normale amministrazione (“The Gypsy King”). È il disco che consacra Wolf, dopo il promettente esordio ecco un lavoro di grande spessore cantautorale che segna la completa maturazione dell’artista. Tuttavia, la presenza di melodie un po’ strascicate e rimuginate (“This Weather”) rende il disco meno fresco di quello che sarebbe potuto essere; l’opera rimane validissima, i brani sono quasi tutti ottimi, ma la fruizione risulta spesso penalizzata da alcuni episodi ostici per i canoni di genere.
Non è un caso che il disco del 2007, The Magic Position, sia il più luminoso della sua breve ma già intensa carriera. Wolf applica ora le sue impeccabili melodie a strutture musicali più dinamiche e gioiose (“Get Lost”), dato che le sue qualità si esprimono al meglio in brani carichi di energia vitale, come fu “Tristan” nel 2005. Gli spazi ariosi esaltano il talento del giovane londinese. Il terzo lavoro è così felice a livello compositivo che sembrerebbe scritto da un veterano. In realtà siamo a soli quattro anni dall’esordio, eppure la sicurezza del cantautore inglese appare strabiliante. Prendiamo “Augustine”; le parole sono dosate con una maestria assoluta, le musiche classicheggianti si inseriscono alla perfezione negli spazi vuoti e dipingono un crepuscolo meraviglioso. Patrick dosa la sua voce in modo delizioso e va a creare un capolavoro senza tempo.
Si, perché questo lavoro abbandona parzialmente le commistioni elettroniche (con felici eccezioni come la briosa “Accident & Emergency” e “The Stars”) e si abbandona a musicalità classiche. Ha il grande pregio di risultare freschissimo pur usando strumenti tradizionali. Come sempre troviamo una lunga serie di splendidi brani. La title track è un carillon fatato, un inno alla positività di estrema bellezza; uno dei picchi più alti. Perfettamente riuscita l’accoppiata “The Bluebell” – “Bluebells”: una sorta di suite in due parti, l’una più contratta, l’altra in climax ascendente. Anche nei momenti più riflessivi non si cade mai nella trappola dell’immobilismo, i brani sono sempre dinamici e fruibili, come in “Magpie”. Il pregio più profondo di questo disco sta nel suo essere semplice, a tratti minimale, e riuscire comunque a raggiungere altissimi livelli di bellezza: strabiliante conferma arriva da “Enchanted”, sonata dalla strumentazione minima, distillato puro di talento, una gioia per i sensi. In questo paesaggio armonioso non poteva mancare una nota di caos stonato, la troviamo in “Secret Garden”. Patrick Wolf è questo, un birbante dal talento immenso che in fondo si prende gioco di noi, ci ammalia per poi distruggere le nostre certezze.
Intanto “Overture” ci aveva mostrato in apertura il pop barocco che sarà la colonna portante del quarto disco.
The Bachelor esce nel 2009 e sconvolge praticamente tutta la critica. Per i primi tre dischi Patrick era stato apprezzato e stimato, ma con quest’opera l’incoronazione è definitiva. Il disco surclassa qualsiasi cosa uscita nell’anno. Assorbe in sé tutti gli stili dei precedenti lavori e va oltre, portando tutto ad un livello superiore e introducendo anche elementi di novità.
I brani sono scritti con una maestria vista di rado negli ultimi 10 anni, non c’è una virgola fuori posto: quando l’ascoltatore viene in contatto con queste melodie crede gli siano state rubate dall’anima per quando risultano perfette, vanno a tempo con il battito del cuore. Ma andiamo con ordine. Innanzitutto questo disco migliora ogni aspetto conosciuto nella musica di Patrick Wolf.
Il folk delicato dei primi tempi evolve nelle visioni fiabesche di “Thickets”, nella sognante “Theseus”, splendidamente intrise di dream pop. o “The Messenger”, unione di folk e beat elettronici. I timbri più scuri ritornano in “The Sun Is Often Out”, le trame dense di Wind In The Wires trovano qui la loro giusta dimensione, mescolate ai vocalizzi agrodolci di Patrick. L’intimismo sussurrato e commosso di “Blackdown” arriva dai momenti più riflessivi di The Magic Position, ma ora la scrittura è illuminata da un qualche dio. Uno stupore totale. L’elettronica ritorna con alcuni importanti episodi, declinata in modi completamente diversi; l’ipnosi tenebrosa di “Count Of Casualty”, il divertimento dance e un po’ sadomaso di “Vulture” e le deflagrazioni iconoclaste di “Battle”. Nei primi tre dischi non aveva assunto forme così svariate. I primi brani sono quelli più incentrati sul pop orchestrale e magniloquente che si attesta così palesemente nell’opera di Wolf solo da questo lavoro. “Hard Times” apre la danze con i suoi magnifici archi, canzone immediata e geniale; “Oblivion” arricchisce la tavolozza con un frenetico beat elettronico ed un’espressività estrema. “Damaris” è un assoluto capolavoro sinfonico, scandito con forza e commozione. L’apice però lo si raggiunge con la title track: un dialogo serrato con la voce rauca di Eliza Carthy che disegna una parabola melodica vaporosa e sfuggente. Un brano inspiegabile nella sua perfezione, impossibile definirne il genere. Una perla da ascrivere alla bellezza pura. Episodio a sé stante è la liturgia epica di “Who Will?”, radicalizzazione delle istanze classiche da sempre presenti nel canzoniere wolfiano.
Che dire, dopo solo quattro dischi il giovane Patrick Wolf può essere tranquillamente inserito nella categoria dei grandi della musica del suo tempo. Difficile trovare un altro cantautore d’oggi che abbia saputo riassumere in sé le principali direttive musicali di questi anni zero, difficile saper fare pop, folk, elettronica e musica sinfonica sempre con la stessa genialità sfolgorante e soprattutto con un approccio totalmente sincero ed intimista. Patrick, nel suo totale insuccesso commerciale, è un amico stretto di chi lo ascolta e lo segue, sa essere il clown che cambia tre vestiti in un concerto, sa essere il menestrello dell’amore, il libertino tutto lattice ed elettronica, oppure ancora il Peter Pan che scappa di casa ed insegue il sogno di diventare un grande artista. In questo continuo trasformarsi solo una cosa rimane sempre perfettamente uguale. È il talento immenso che il caro Patrick si è trovato tra le mani e che per nostra fortuna ha saputo esprimere in questa musica meravigliosa.
2003 - Lycanthropy 76/100
2005 - Wind In The Wires 78/100
2007 - The Magic Position 76/100
2009 - The Bachelor 85/100