Solo ora che Frusciante se n’è andato di nuovo e che ho ascoltato i Red Hot Chili Peppers senza il loro despota ho potuto capire quali erano i problemi alla base dei precedenti By The Way e Stadium Arcadium: in quei dischi il chitarrista imponeva le sue idee, che erano ben lontane dalle attitudini degli altri membri, non certo con egoismo e male intenzioni, ma semplicemente perché era il più ispirato e fertile dal punto di vista creativo e le sue intuizioni erano alla base di quasi tutte le canzoni del periodo ’99 – ’06.
Tuttavia, queste idee, in origine buone, venivano filtrate dal condizionamento che John sapeva di dover subire, cioè la necessità di fare musica appetibile al grande pubblico: questa la differenza sostanziale ad esempio tra By The Way e Shadows Collide With People, era sempre lui a dominare, ma nell’uno lo faceva sapendo di dover creare musica facile ed immediata, le canzoni erano sue ma snaturate dal marchio commerciale RHCP, nel secondo invece suonava spontaneamente ciò che desiderava. Il funk non gli interessava più da un pezzo e non è certo un caso che i brani soft funk recenti suonassero totalmente non autentici. Altro problema; le canzoni di Frusciante devono essere cantate da Frusciante, non da Anthony Kiedis: “Snow” è all’origine un brano dream pop cristallino dai suoni meravigliosi, tutti coperti dal canto forzato di Kiedis e dalla produzione piatta di Rick Rubin. “Dosed” è rovinata sostanzialmente dal miagolio tremendo del malcapitato Anthony. Molti brani del 2006 suonano vuoti perché Smith e Flea non sapevano più cosa suonare per accompagnare il frenetico John. Non c’era più equilibrio tra i quattro elementi. Dal canto loro, gli altri tre membri erano ben consci della violenza seppur involontaria che subivano, ma non osavano ribellarsi poiché non avevano niente di meglio da proporre (o meglio: credevano di…) e quindi dovettero rimanere sottomessi alle imposizioni frusciantesche: Kiedis che canta melodie lontane anni luce dai suoi timbri, Flea relegato al ruolo di comparsa e Smith equiparato ad una drum machine. Credo che quasi tutti i brani del disco del 2006 siano nati da Frusciante, con la band che in alcuni casi riusciva a stargli dietro, mentre in numerosi altri episodi buttava lì qualcosa di raffazzonato, generando mostri. Credo che scrivere quasi 40 canzoni per coprire tutto il materiale prodotto dal chitarrista sia stato uno sforzo troppo grande per Kiedis (infatti molti brani presentano strutture esilissime, sintomo di poca perizia in fase di scrittura) e non a caso ne è seguita una pausa di due anni. Non si sa molto sul secondo abbandono di John, ma credo che non sia stato così traumatico per gli altri, anzi forse è stato un sollievo. Dopo il cambio di line-up del 2009, Kiedis, Flea e Smith sono risorti dalle ceneri a cui li aveva costretti l’ex chitarrista: hanno assoldato un ragazzo giovane e timido, Josh Klinghoffer, capace di dare un ottimo apporto senza imporre alcuna condizione e lentamente hanno ricominciato a scrivere canzoni come sapevano e volevano fare. I’m With You suona allora come la band che si riprende le sue prerogative, che riacquista la sua forma reale. Tutti i brani sono imperniati su gustosi patterns ritmici, Kiedis ha smesso di cantare melodie da eunuco, la band può esprimere le sue qualità tecniche indiscutibili in modo libero e totalmente spontaneo. Non è un caso che le melodie presenti siano ben diverse dalle forzature dello scorso decennio: sono variazioni occasionali di una voce che rimane funk - rap - hip hop e non sarà mai completamente snaturata. “Brendan’s Death Song” ne è un chiaro esempio: melodia semplice e ripetitiva ma carica di significato ed emozione, questa è la verità di Kiedis, come “Under The Bridge” non era un capolavoro melodico ma un capolavoro di emozioni. Stesso discorso per “Annie Wants a Baby”: linee melodiche brevi ma intense, con belle sfumature timbriche e senza dover inseguire architetture musicali inadatte alla sua scrittura, sempre abbastanza elementare ed istintiva. “Police Station” è un altro caso simile. Brani pacati, ma ben lontani dalla melassa ingiustificabile del 2002 e 2006. C’è anche la melodia spontanea ma ridondante: “Meet Me at the Corner” è più che trascurabile, ma è un errore in buona fede, frutto della fallibilità umana. Flea suona anche il pianoforte: “Happiness Loves Company” è una marcetta da pop UK ben fatta anche se il ritornello solare darà fastidio ai fan più di vecchia data. Altro momento al piano è “Even You Brutus ?”, decisamente la gemma del disco, di cui parlerò più tardi. Per concludere la “lista nera” non posso non citare “Dance, Dance, Dance” che parte con un basso gustoso ed un ritmo interessante ma si rovina con un ritornello troppo ridicolo per essere vero. Gli episodi più rockeggianti sono tutti ben fatti: “Goodbye Hooray” è un buon rock melodico nello stile di Californication, ritmi sostenuti, suono pieno, chitarra schizoide (nonostante Rubin tenti di smorzarla il più possibile) e ritornello martellante. “Ethiopia” propone ritmi inusuali che ben si sposano con il basso pulsante di Flea ed il canto spezzato di Kiedis. Di “Maggie” ne ho già parlato, uno dei singoli di apertura meno ruffiani degli ultimi 15 anni di storia RHCP. “Factory of Faith” è un funk rock 100% Red Hot, Kiedis ci dà dentro con una cantilena funk ben variegata e ritornello orecchiabile. Peccato per la produzione che penalizza un brano che in sede live sarà un instant classic, davvero superiore a gran parte del funk di plastica della seconda era Frusciante. “Monarchy of Roses” riesuma sonorità claustrofobiche – ruvide e voce filtrata (si è parlato di “Warped”, ma ne manca la potenza esplosiva), ai quali si sommano il ritornello in crescendo ed un basso divertente. Titolo provvisorio “Disco Sabbath”, uno dei brani più entusiasmanti da diverso tempo, perfetto incontro tra spirito rock e appeal easy. Chitarra sporca, ritmica sostenuta, la produzione appiattisce un po’ la carica energica che farà felici i fan ai prossimi concerti. Le vere perle di I’m With You sono tre brani completamente diversi tra loro: “Look Around” è una spirale dinamitarda che si snoda tra funk rap, chitarra dinamica, un bellissimo bridge in crescendo, ritornello esplosivo, ricami elettrici e rifiniture azzeccate. Altra perla inaspettata è “Did I Let You Know”: ritmo mariachi/caraibico mescolato ad una batteria densissima, melodia eterea e sognante contrappuntata però da un ritornello carico di drammaticità, meravigliosamente giocato sui diversi timbri vocali di Anthony e Josh; in più un assolo fulmineo di tromba, divagazioni space rock alla chitarra e finale percussivo. Un brano che mostra nuove possibilità esplorative senza scadere nel ridicolo (vedi “Cabron” o “On Mercury”). Come già accennato l’episodio chiave è “Even You Brutus?”; crocevia del passato e futuro della band: arrangiamento pianistico, ritmo da farsa cabarettistica, un Kiedis stupendo che rigurgita un hip hop fanfarone, ricamato da accenni melodici agrodolci e ritornello amplificato. Cosa penso di questo disco? Che sia trascurabilissimo nella trentennale carriera dei Peppers, che non sposti di una virgola il peso specifico dei californiani nella storia del Rock, ma al contempo non ne infanghi l’immagine. È il perfetto disco della stagione matura, quando ormai si sono sparate le cartucce migliori ma c’è ancora voglia e amore per produrre qualcosa di dignitoso che renda felici i numerosissimi fan. Non credo che questo lavoro abbia importanti obbiettivi economici, almeno non da parte dei musicisti che l’hanno creato (la Warner invece ha già l’acquolina in bocca). È un’opera di giustizia verso la propria carriera, verso le proprie qualità artistiche (Flea, Kiedis e Smith mai così in forma dal ’99); rappresenta bene tre musicisti cinquantenni, capaci di fare il loro mestiere ancora con qualche idea interessante, che sanno di aver detto tutto in un certo ambito ma sono convinti di poter fare ancora buone canzoni e cercano di variare qualche elemento per non scadere nella pura ripetitività. C’è Josh Klinghoffer che aiuta non poco questa operazione: lascia spazio all’orgoglio dei tre veterani ed al contempo aggiunge un tocco di originalità ai brani con suoni grezzi, stralunati, lontani il più possibile dall’ormai standardizzato e sovraesposto stile di Frusciante. Le variazioni apportate sono ben calibrate e verosimili, i nuovi suoni sono frutto del talento funzionale e mai arrogante del chitarrista e la voglia di reinventarsi di Flea; il discreto standard qualitativo passa anche dal buono stato di forma di Kiedis e Smith. Un album spontaneo e senza ambizioni spropositate insomma, se non quella di fare ciò che si è capaci, di non tentare oltre le proprie possibilità. Ed è questo il discriminante principale che lo rende diverso dai due infelici predecessori: ci sono pochi passi falsi perché la band, liberata da un vanaglorioso dittatore, non si arrischia più in territori che sa non essere di sua competenza e non si lancia in sfide impossibili. E riconoscere i propri limiti è sintomo di cosa se non della fine dell’arroganza giovanile e l’inizio della saggezza degli anni maturi? Benvenuti splendidi vecchietti. 60/100
|
Anthony Kiedis: Voce Anno: 2011 |