Lo spettatore diventa testimone di un confronto asimmetrico, un duello silenzioso in cui la linea di demarcazione tra vittima e carnefice diventa rarefatta fino a dissolversi. La pièce, nella sua narrazione, racconta la storia di una psichiata criminologa di nome Maude la quale indaga intorno ad un' inquietante serie di crimini ai danni delle vittime di un misterioso e crudele aggressore che prende di mira solo giovani donne somiglianti fra loro, rendendole dei vegetali grazie ad una pratica chirurgica che attua con un punteruolo dopo averle apparentemente stuprate. La scansione del ritmo narrativo agisce al contempo sulla psiche del pubblico, portandolo a interrogarsi su quanto sia facile cadere nel condizionamento, su quanto il libero arbitrio sia realmente un valore assoluto od al contrario preda di influenze esterne. La leva di questa rappresentazione risiede soprattutto nell'intensità degli interpreti, Francesca Chillemi e Francesco Iaia, la cui recitazione si muove tra registri sottili, costruendo profili personologici che sfuggono a qualsiasi lettura univoca. Così la terapeuta incarna una figura femminile complessa, lontana dallo stereotipo della vittima inerme: la sua interpretazione restituisce una donna dilaniata tra il terrore e il fascino oscuro del suo aguzzino, una mente che lotta per mantenere il controllo su se stessa mentre viene fagocitata in un vortice di incertezza e manipolazione. Il serial killer è un innocuo mattacchione e, al tempo stesso, uno spietato, seducente e terrificante criminale capace di trasmettere una minaccia costante senza mai ricorrere alla violenza manifesta. La sua presenza scenica si impone con una gestualità studiata, con una voce che diverte e confonde. La regia di Enrico Zaccheo esalta questa ambiguità, giocando sulla sottrazione e sull'evocazione piuttosto che sulla rappresentazione diretta. L'uso sapiente delle luci, che modellano la scena con tagli netti e ombre dense, contribuisce a creare un senso di spazio compresso mentre la colonna sonora minimalista amplifica il senso di inquietudine. Il silenzio diventa un elemento narrativo potente, uno spazio carico di tensione in cui lo spettatore è costretto a colmare i vuoti con le proprie paure e supposizioni. Colpisce quest'opera, tratta dal romanzo scritto da Gardner McKay nel 1999, per la sua capacità di inchiodare l'attenzione con un'atmosfera densa e claustrofobica, il suo vero potere risiede nella profondità tematica. L'opera, che si configura come thriller psicologico, impone una riflessione sofisticata sul controllo, sulla manipolazione e sulla fragilità dell'identità umana. La messinscena si fa metafora di un mondo in cui il potere non si esercita più con la forza bruta ma attraverso strategie sottili, insinuanti, capaci di trasformare l'individuo in una marionetta senza che ne sia consapevole. Lo spettacolo si chiude lasciando il pubblico in uno stato di sospensione: non vi è una risoluzione netta, nessuna catarsi liberatoria. Ciò che resta è un senso di inquietudine profonda, il sospetto che il Toyer non sia solo un personaggio teatrale ma una figura che si annida ovunque nella società contemporanea, nelle dinamiche interpersonali, nei giochi di potere silenziosi che regolano i rapporti umani. Il Giocattolaio è dunque più di un'opera teatrale: è un'esperienza sensoriale e intellettuale che scava nelle paure più profonde dello spettatore, lasciandolo con la consapevolezza che l'arte del manipolare è tanto sottile quanto onnipresente. Un teatro che non si limita a raccontare ma che agisce, destabilizza e continua a vivere nella mente di chi lo ha vissuto, anche dopo l'ultima battuta. La presente recensione si riferisce alla rappresentazione dell'8 marzo 2025 |
Il giocattolaio
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