Elegantissima performance artistica quella a cui ha assistito il pubblico dello Studio Melato ieri sera. Il protagonista condivide generosamente lo spazio scenico fatto di un pianoforte color ebano, di una seduta e relativo appoggio per tromba e coppe e di quelli che potrei definire coprotagonisti dal valore diamantino, ossia Paolo Jannacci (musicista, compositore, arrangiatore e cantautore italiano, jazzista eclettico, unico figlio del grande Enzo Jannacci) al pianoforte e Daniele Moretto ( trombettista e compositore italiano, noto soprattutto per aver militato negli 883, figlio del produttore discografico Giovanni Moretto) alla tromba e flicorno. Grazie all'arte musicale, di cui sono mentori entrambi, amplificano e corroborano la densa narrazione, addizionandola di quello charme sofisticato di note jazz scivolate con maestria e incanto, rendendo immediatamente fruibili, fra riso e commossa riflessione, temi di grande peso specifico come quelli snocciolati dalla cornucopia verbale di Stefano Massini (scrittore e drammaturgo italiano, primo autore teatrale italiano ad aver vinto nel 2022 un Tony Award per "Lehman Trilogy", oltre ad altri prestigiosissimi riconoscimenti), protagonista di questo accattivante dialogato-monologo. Non sbigottitevi se definisco così quest'opera, non si tratta di una contraddizione, l'impressione fin dall'inizio è quella di interagire con un uomo dal guizzo istrionico di stampo sfacciatamente toscano. Cos'avranno mai in comune il parco giochi più famoso al mondo e l'isola di Tahiti? In effetti non me lo ero mai chiesta. La risposta non tarda ad arrivare. Sia nell'idioma Reo Tahiti sia a Disneyland è assolutamente oscurata la possibilità di esprimere il dolore: per assenza di morfologia grammaticale nel caso della lingua polinesiana, e per ufficiale codice di condotta nel caso della struttura inaugurata da Walt Disney. Andando più a fondo della cosa s'aggiunge un dato davvero inquietante: le statistiche ufficiali pare rivelino un inaspettato altissimo tasso di suicidi proprio nell'atollo dei sogni. La filosofia che osserva ed intellegge questi fenomeni apparentemente lontani gli uni dagli altri, quella dell'autore e fine narratore, ci dice con verve oculata che le motivazioni sono proprio da ascrivere all'impossibilità di raccontare la propria sofferenza in quella lingua; questa insana negazione di un bisogno che invece è fisiologico e necessario porterebbe appunto allo spleen. Nasciamo con l'innata pulsione di raccontare delle storie, di condividere il dolore unendoci agli altri, attraverso il racconto, che a loro volta possono unirsi a noi attraverso il loro vissuto. Le storie non hanno mai un valore assoluto ed oggettivo poiché sono filtrate dai nostri desideri e dai nostri vissuti, da ciò che più vorremmo o di cui siamo impauriti. Nel 1894 proprio Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, si trovò a riflettere su un banale aneddoto di vita quotidiana che riguardò sua moglie e i suoi due figli ancora bambini e ne derivò una delle teorie più sofisticate relativa al racconto stesso dell'accaduto in relazione al narratore che modificava la vicenda osservandola dalla propria ottica e vivendola da angolazioni, vissuti, aspettative, età anagrafica, desideri, timori, differenti gli uni dagli altri. Noi ci serviamo di trame per raccontare la nostra stessa storia. L'attore ci porta, senza che ce ne rendiamo davvero conto, nella sua Firenze dove traccia per noi l'affresco di uno spaccato di storia e società toscana a base di fazioni e pennellate di rosso che più rosso non si può. Intercala sapientemente Jannacci con una delicatissima canzone del suo repertorio "Cose semplici". Inevitabile e mai scontato il monito implicito, fermo e gentile, che ci invita a rifuggire dai luoghi comuni, di cui è tristemente costellato il nostro cammino, ed interviene un salvifico serratissimo excursus che conduce in una giostra scintillante, a cavallo della linea del tempo e dello spazio, attraverso dislivelli iperbolici di cui solo un attore consumato è capace. Massimo D'Azeglio, Vittorio Alfieri, Čechov, San Giuseppe da Copertino, San Ludovico, il Re Lear di William Shakespeare nella versione piovosa e splendidamente rumorosa (Jannacci - Moretto) del drammaturgo Massini interpretata, s'intuisce, dal grande Ennio Fantastichini, e ancora B. Traven, il Decamerone di Boccaccio, Casanova bambino, la Sindrome di Wernicke-Korsakoff, Filumena Marturano di Edoardo de Filippo, la meravigliosa canzone del 1991 "La fotografia" dell'indimenticato Enzo Jannacci, e infine Dante il più straordinario inventore e narratore di storie, di quelle storie di cui abbiamo un viscerale bisogno. Tutto d'un fiato e senza sosta, scorpacciata di derivate da uno studio attento e da sagaci riflessioni. Peccato non vi sia nella meravigliosa lingua italiana un superlativo che vada oltre quello assoluto, perché lo avrei speso volentieri per definire questa pièce dal calibro inestimabile. La presente recensione si riferisce alla rappresentazione del 23 maggio 2023 |
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