Opera fortissima della quale è evidente la finalità di contrapporre la nota spietata volontà di annientamento del popolo ebraico da parte di Hitler e dei suoi ignobili seguaci, con la memoria afferente all'attività certosina di ricerca di questi ultimi nel mondo, finita la guerra. Tale obiettivo è perseguito, a ruoli totalmente invertiti (stavolta sono le vittime che inseguono i carnefici), da un Wiesenthal determinato ma che, a posteriori, si rammarica di averne potuti consegnare alla giustizia soltanto il 5%. Ci sono due cose che traspaiono evidenti, guardando questa rappresentazione: la prima allude allo sgomento che permea tutti sulle connotazioni tipiche del genocidio perpetrato nel corso della II Guerra Mondiale: da una società così evoluta e acculturata come quella tedesca - che, tra le altre cose, e si cita solo un esempio, diede i natali a Goethe - non ci si aspettava un orrore sistematico di tale portata; la seconda riguarda l'approccio esplicativo concernente l'operato del noto ebreo ucraino/austriaco: non vendetta, la sua, ma vero e puro atto di giustizia. A latere di tutto ciò, c'è l'importanza indissolubile della memoria, possibilmente indignata, unica antagonista degli orrori occorsi. Suggestiva l'interpretazione di Girone, che veste i panni di un personaggio ormai stanco, appesantito, con occhi tristi da Pierrot. Ottima la sua capacità di catalizzare il pubblico e tenere il palco, anche nell'imprevisto (intorno alle 21:40, una persona in sala ha accusato un malore e lo spettacolo è stato giocoforza interrotto, poi da egli poco dopo ripreso, peraltro con maggiori energie). Inquietante la scenografia: occhi in background che alludono all'ossessione patita dal capo-medico antropologo di Auschwitz, l'angelo della morte Josef Mengele, talmente ossessionato dagli occhi azzurri e dall'eterocromia, da arrivare a sacrificare molte vittime in nome della scienza, vivisezionando coppie di bambini gemelli in nome della sua ricerca "eugenetica". Alla fine dell'opera, un messaggio non è espresso ma è latente: nulla di tutto ciò si deve ripetere, nel rispetto della dignità umana, fonte da cui trarre ispirazione per consegnare ai nostri figli una società e un mondo vivibile. Ci saranno sempre guerre e, conseguentemente, gente che ne soffre, ma sempre deve essere presente, in ognuno di noi, la consapevolezza della presa di distanza dalla assuefazione alla sofferenza: l'abitudine al dolore è quanto di più pericoloso la nostra società possa partorire. La presente recensione si riferisce alla rappresentazione del 19 gennaio 2023. |
Il cacciatore di nazisti |