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Patrick Wolf
Lupercalia

Nel 2009 Patrick Wolf aveva pronte tante canzoni da coprire due dischi: The Bachelor e The Conqueror. Si pensava inizialmente ad un doppio, intitolato Battle, salvo poi far ricadere la scelta su due dischi separati e pubblicati a distanza di tempo. Il primo uscì in quell’anno e fu un fulmine a ciel sereno nel mondo del pop di qualità, quasi universalmente riconosciuto come un’opera geniale, ha segnato un nuovo punto d’arrivo per la musica leggera, sia a livello qualitativo che quantitativo. Intuizioni melodiche sconvolgenti ed una varietà stilistica difficile da credersi venivano centrifugati in un’epopea melodrammatica debordante, di grande sostanza eppure stracolma di dettagli perfettamente rifiniti e parecchio originali.

I fan di Patrick, nei primi mesi dell’anno successivo, aspettavano notizie sul preannunciato seguito: i brani erano pronti, bastava registrarli ed avremmo avuto altro meraviglioso materiale su cui sbavare. Non è andata così: sono intervenuti due fattori ad alterare il corso degli eventi. Patrick s’è innamorato ed ha ricevuto una proposta di matrimonio da William Charles Pollock, ha alterato il suo umore, rendendo quindi inattuale il concept di Conqueror, che infatti è stato cambiato nell’estate 2010. Dal tentativo di fuga dalla cupa malinconia di The Bachelor ad un vero e proprio inno all’amore, confermato anche dal titolo, mutato in Lupercalia. È intervenuta poi la Hideout, sussidiaria della Mercury Records, a trasfigurare definitivamente l’essenza del disco e mutare anche l’immagine di Wolf. C’è stato un ripulisti generale, difficile credere che sia dovuto solo ai, seppur importanti, fatti privati della vita del cantautore. Insomma, credo che la nuova etichetta abbia deciso di puntare forte sul potenziale commerciale di Patrick e per renderlo appetibile al grande pubblico, l’ha normalizzato. Basta copertine trash, basta video assurdi o sado-maso, basta arrangiamenti fuori moda, basta stramberie di ogni genere; un inedito tam-tam mediatico lungo sette mesi con tre singoli lanciati prima dell’uscita del disco ed una serie infinita di interviste hanno suggellato il trapasso.

Ora, dopo mesi di malcelato odio verso questa mutazione, è arrivato il momento di ascoltare il disco, ormai da me colpito con ogni possibile maledizione. M’ero già fatto un’idea coi singoli che, seppur non deludendo completamente, mostravano una certa semplificazione delle strutture e la ricerca spasmodica del ritornello – tormentone. Ora che ho ascoltato l’opera completa posso emettere il mio giudizio: una semplificazione c’è stata sicuramente, è innegabile che Patrick si stia avvicinando sempre di più al pop mainstream. Gli arrangiamenti dei brani sono la prima spia di questo moto traslatorio: sparite le orchestrazioni barocche, spariti i rigurgiti elettronici, il comparto musicale magniloquente del 2009 ha ceduto il passo ad un equilibrio classicheggiante, rifiniture sonore sempre calibrate al millesimo, elegantissimi contrappunti si innestano nelle melodie senza mai risultare invadenti. Il tessuto ricchissimo e spesso imprevedibile del passato è stato ridotto e rieducato in favore di accompagnamenti lussuosi ma didascalici (“The Future”), motivetti musicali semplici e facilmente memorizzabili. Il botta e risposta ritmico di “The City”, le note al piano di “Bermondsey Street”, gli archi di “Time of My Life”, tutto è perfettamente dosato, non c’è mai niente di troppo ma nemmeno di imprevisto e stupefacente. Non che manchi una certa elaborazione musicale dei pezzi (“Together”), ma questa risulta appena sufficiente e soprattutto banale, se paragonata a quella grandiosa e schizofrenica di due anni fa. In genere si punta ad un tema solo per brano, pianoforte o archi, laddove pezzi come “Oblivion” presentavano autentici caleidoscopi sonori.
Va riconosciuto che non tutti i lavori di Patrick sono stati sovrabbondanti come il penultimo, eppure in Lupercalia c’è qualcosa di diverso. Siamo sempre stati abituati ad episodi dissonanti, piccoli esperimenti, scherzi, giochi, mescolanze di elementi disomogenei, strutture atipiche, variazioni continue. Pensiamo a The Magic Position: solare e giocoso, non rinunciava ad un’ininterrotta variazione cromatica, nonostante non fosse propriamente un disco magniloquente, (qualcosa di simile si ritrova in “The Falcons”). Tutto questo è sparito, l’omogeneità regna sovrana, ben pochi sono gli sbalzi stilistico – umorali, forse la cifra decisiva del canzoniere wolfiano; si pensi al trittico “Vulture” – “Blackdown” – “Battle”, un’escursione quasi impensabile eppure totalmente spontanea e riuscita. Il nuovo album sceglie invece la linea della continuità, una linearità che non turba mai l’ascoltatore, la forma canzone è rispettata rigorosamente in ogni episodio, il classicismo domina quasi incontrastato.

Risulta pacifico che Lupercalia sia il disco più involuto sul piano stilistico della carriera del giovane londinese. Attenzione, questo non significa che si tratti di un disco musicalmente brutto. Tutt’altro, è miele per le orecchie! Non c’è nulla fuoriposto, arrangiamenti di gran classe, insomma, un disco di pop raffinatissimo, ma che va incontro alle masse invece di far sì che siano le masse ad andare incontro a lui. Si fa di tutto per compiacere al massimo il pubblico. E’ bastato centellinare la qualità strabordante di Patrick per creare un’essenza di pop perfetto. Qualsiasi cantante si sognerebbe di avere a disposizione una decina di pezzi simili. Il disco è quindi ottimo o deludente a seconda della prospettiva: nel contesto della musica pop, questa è una perla di raro talento, equilibrio e misura, nella carriera di Wolf è l’episodio più avaro di sperimentazione stilistica e quello più auto-limitante delle pulsioni policentriche del buon Patrick. Difficile però pensare che sia stato lo stesso artista ad auto-limitarsi così fortemente.
Le melodie rimangono illuminanti (“House”), anzi, in un quadro musicale gradevole ma mai protagonista, le linee vocali assumono ancor maggiore importanza nell’economia dei brani. Si opta ovviamente per una compostezza quasi sconosciuta in passato, la verbosità inquieta lascia spazio a versi misuratissimi e motti ripetuti su trame melodiche sottili, mai sopra le righe, appunto per essere più durevoli possibile. Wind in the Wires, opera malinconica e riflessiva, presentava ugualmente diversi episodi di slancio sensuale e un po’ burlesco. Qui niente, l’austerità è totale.

Ciò che cambia è anche l’umore dei brani: il dramma esistenziale e sociale di The Bachelor lascia spazio ad una tenera celebrazione dell’amore, la visione positiva del mondo da parte di una persona innamorata, senza però scadere mai nello sdolcinato, con qualche rincalzo malinconico piazzato qua e là a mitigare il clima gioioso, che rischiava di risultare stucchevole. Si vedano le belle “Armistice” e “The Days”, intense ma ben lontane dalla catarsi profonda di “Blackdown” e prive di spunti davvero emozionanti. Il clima sereno e disteso, suppur non eccessivamente euforico, rende il disco leggerissimo e di facile gradimento, meno intricato psicologicamente e quindi di più immediata fruizione, con l’aiuto degli arrangiamenti ed il numero ridotto di brani.
Un album che scorre via in un batter d’occhio, lineare, senza alcun contraccolpo lacerante, è l’opera meno viscerale e conturbante della sua carriera. Forse trovando la stabilità personale Patrick ha messo da parte il lato più genialoide del suo carattere per far emergere in modo puro la passione per la musica pop, per le melodie sognanti, i suoni dolci, le atmosfere rilassate. A mio parare c’è stata anche un’interferenza esterna (leggasi Mercury Records) che ha pigiato sul tasto dell’accessibilità a discapito del genio polimorfo e quindi ostico dei dischi precedenti. Insomma, un “concorso di colpa”.

Nonostante queste considerazioni devo ammettere che pur rinnegando se stesso Patrick Wolf ha creato l’ennesimo disco di cui ci si può solo innamorare. Un gioiello diverso dagli altri, anzi di più, l’antitesi di quanto detto in passato, eppure parimenti magnifico. Ma non è anche questo sinonimo di grandezza? Riuscire nel giro di due anni a tirar fuori due gemme indelebili seppur totalmente antitetiche?
Rimane il suo prodotto meno importante, ma se spoglio la mia mente da tutti i pregiudizi dovuti ai precedenti album, non posso che ammettere la genialità compositiva di questo principe randagio, riconfermata anche in quest’episodio dissonante: il genio più alto che la musica pop degli anni 2000 abbia saputo coniare. La sua capacità di plasmare canzoni che colpiscono dritto al cuore è semplicemente devastante ed inarrivabile. Suonerebbe geniale in ogni contesto musicale, basta la sua voce a travolgere i nostri cuori.

Patrick Wolf è questo, il più grande cantautore del suo tempo. Ciò comporta che un disco come Lupercalia sia considerato solo discreto, quando verrebbe ricoperto di elogi sperticati se fosse stato di qualcun altro.
Lo diceva anche lo zio di Peter Parker: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”.
Alla prossima, caro Patrick.

72/100


Patrick Wolf: Voce, chitarra e violino

Anno: 2011
Label: Mercury Records
Genere: Pop

Tracklist:
01. The City
02. House
03. Bermondsey Street
04. The Future
05. Armistice
06. William
07. Time of My Life
08. The Days
09. Slow Motion
10. Together
11. The Falcons

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