Il più grande dono di cui le opere d’arte sono in possesso è quello di poter comunicare una quantità talmente vasta e variegata di suggestioni senza aver bisogno di utilizzare subdoli mezzucci da primate quali il linguaggio o la scrittura.
Comunicare con la propria esistenza. Qui si potrebbe finire sul filosofico fine a se stesso, ma questa premessa ha un altro scopo. Ci sono dei momenti in cui anche chi scrive fa fatica a dare forma calligrafica a ciò che la sua mente gli propone e questo è più o meno la condizione in cui ora verso, perché a dover definire le coordinate della musica degli Ellipsis mi trovo in seria difficoltà. Sotto la scorza doom, industriale e terribilmente claustrofobia si nasconde infatti un’anima melodica impregnata di romanticismo oscurata però da riff tellurici e da velleità progressive condivise con i loro ipotetici padrini, Opeth e Nevermore, dai quali però riescono a distaccarsi stilisticamente affondando le radici del proprio sound in territori jazz e orientaleggianti. Un fare musica permeato sulla convinzione che non esistono generi incapaci di coesistere e che la strada da seguire sia proprio quella della commistione di vari patrimoni musicali. Tra questo crogiolo di riferimenti, i testi descrivono con rassegnazione e senso di abbandono la solitudine e l’alienazione di un sistema ormai prossimo all’implosione, senza però sfociare in discutibili quanto inutili momenti melodrammatici. Tutto il fascino della band francese si fonda quindi su questa duplicità, sempre avvalorata da doti compositive non indifferenti, che tuttavia necessita ancora di trovare quell’equilibrio richiesto, se non preteso, da chi si cimenta con una musica ambivalente come la loro. Ciononostante, gli Ellipsis sembrano ormai aver imboccato la strada giusta per poter dare la migliore forma possibile al loro estro e per poter ancora una volta incantarci con i loro racconti di alberi testimoni, scatole nell’oceano e rabbie perfette. 80/100
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Emmanuelson: Chitarra, voce Anno: 2007 |