La storia dei Beatles la conosciamo tutti, sono stati versati fiumi d'inchiostro per raccontare tutte le dinamiche relative alla band che più di tutte ha segnato la musica rock dagli anni '60 ad oggi. Non è quindi mia intenzione tediarvi con una recensione storiografica rigorosa, che spieghi in modo oggettivo l'importanza di questo disco.
Sappiano tutti che è l'ultimo album prodotto dalla band, anche se non è stato l'ultimo a venire pubblicato; sappiano che i membri lavoravano ormai come dei solisti e che ogni canzone ha un genitore unico, sappiamo che la copertina è ormai leggenda, con tutte le dietrologie sull'ipotetica morte di Paul. Ciò che vorrei cercare di spiegare io è invece il motivo per cui ritengo quest'opera il lascito più importante di Fab Four. Abbey Road è invecchiato molto meglio dei suoi illustri predecessori: l'osannato Sgt Pepper fu sì un disco epocale per la storia della musica rock, ma gli anni ne hanno evidenziato le carenze, la scarsa continuità qualitativa all'interno delle 13 tracce, che alternano capolavori immensi quali "A Day In The Life" e "Within You Without You" a episodi insulsi come "When I'm Sixty-Four", o incredibilmente sopravvalutati quali "With A Little Help From My Friend" e "Lovely Rita". Insomma, i dischi dei Beatles erano stati fondamentali, ma in larga misura per il fenomeno di massa legato alla band, per la loro popolarità, per la qualità tecnica delle registrazioni, per la varietà degli strumenti utilizzati, per la conquista di uno status artistico inattaccabile, ma a livello squisitamente compositivo la band di Lennon e McCartney non era stratosferica come la si vuole dipingere. Il fenomeno Beatles è sempre stato in primo luogo commerciale e sociale; di canzonette orecchiabili ne hanno scritte a bizzeffe, quelle sì, e col tempo hanno imparato ad essere originali e creativi, ma stento a trovare un loro disco che possa essere considerato come un blocco unitario di omogeno ed elevato livello qualitativo: insomma, quando la fantasia veniva meno, si era sempre pronti a tappare la falla con un motivetto facile quanto insulso. Il loro genio era enorme, ma discontinuo sulla lunga durata di un 33 giri. Quello che emerge invece in quest'album è una qualità artistica completa e costante, universale, che trascende le mode e il successo momentaneo. A mio modo di vedere Abbey Road costituisce la vera riscossa artistica della band di Liverpool: sia chiaro, anche i dischi precedenti sono ottimi, ma io sto parlando di eccellenza assoluta nel songwriting, la capacità di produrre un disco perfetto dall'inizio alla fine e non un contenitore per tre o quattro singoli spettacolari, o quel brano sperimentale piazzato in fondo alla tracklist che faccia chiudere un occhio a proposito dei pezzi più deboli. Un disco che cinquant'anni dopo suona ancora attuale. I Beatles hanno scritto la storia della musica, ma hanno veicolato stili e tecniche nuove attraverso canzoni e album non sempre eccezionali a livello compositivo; spesso la patina superficiale era più interessante dell'ossatura profonda delle canzoni, non di rado semplicistica e ripetitiva. L'opera del 1969 non è certamente esente da difetti, ma se paragonata ai dischi precedenti risulta la meno autoindulgente, quella che ricerca con maggior determinazione la qualità assoluta delle canzoni, al di là degli effetti sonori o dell'utilizzo di strumenti esotici. C'è una maturazione nel modo di scrivere musica; gli intenti artistici più ambiziosi appartengono all'accoppiata Lennon - Harrison; mentre McCartney risulta il più ancorato alla forma canzone pop nuda e cruda, incapace di considerare una formulazione più solida e durevole; la sua idea del Long Medley salverà però il disco da un Side B altrimenti povero di contenuti. Forse l'episodio chiave è costituito da "Something", scritta da Harrison; essa trasforma il semplice pop in qualcosa di emotivamente più complesso, la melodia non si accontenta di essere orecchiabile, ma punta a toccare una gamma espressiva più ampia, che smuova l'ascoltatore con un brivido e non solo per la piacevolezza del motivetto. Rinuncia a parte del brio pop alla McCartney e ne guadagna esponenzialmente a livello artistico; una perla immortale, che ancora oggi suona perfettamente contemporanea. In apertura "Come Together" aveva finalmente mostrato una forma rock accettabile proprio perchè spontanea e non mutuata da altri artisti: è un rock minimale, sornione, che gioca abilmente con la ritmica e si lancia poi in una jam ossessiva. Lennon ovviamente è la forza trainante verso la completa maturità artistica: oltre all'opening track, sono sue anche le splendide "I Want You (She's So Heavy)" e Because": la prima è un tour de force sfiancante, strutturato attorno ad un ipnotico riff di chitarra e la ripetizione del titolo con diverse intonazioni; l'altra è una perla polifonica, raffinata e delicatissima. Anche Harrison delizia l'ascoltatore con la stupenda "Here Comes The Sun" (oltre a "Something"), scintillante ed immortale con la sua chitarra limpida e le splendide trame melodiche; è una delle gemme rimaste più brillanti nella discografia beatlesiana. Come già anticipato, McCartney pare il più restio ad abbandonare lo schematismo pop dei tempi d'oro: "Maxwell's Silver Hammer" è sintomatica della testardaggine di Paul nell'insistere con uno stile leggiadro quanto stucchevole, che si salva solamente grazie allo splendido apparato musicale, forte di moog e organo. Gli altri tre Beatles non esitarono a criticare aspramente il pezzo, ritenuto stupido e "da nonnina". La successiva "Oh! Darling", pur essendo già abbastanza retrò nel '69, si fa notare per la splendida esecuzione di McCartney e per l'arrangiamento quanto mai originale e pungente. Anche quando il canto eccede con l'enfasi, il contrappunto musicale riesce sempre a sdrammatizzare il tutto. Altro momento decisivo del disco è sicuramente il Long Medley della seconda facciata: appurata l'impossibilità di attuare un'evoluzione artistica omogenea tra i vari membri, l'idea di Paul di unificare numerosi brani in una sorta di suite si rivela decisiva per innalzare il livello complessivo dell'opera perchè, diciamocelo, i brani che lo compongono sono canzonette o poco più, ma accorpate in un continuum quasi prog si esaltano vicendevolmente e danno vita ad uno dei momenti più alti nella storia dei Beatles. Gli altri tre membri erano ormai disinteressati al progetto e Paul, che voleva concludere degnamente la discografia della band, cucì assieme una manciata di mezze canzoni e crerò, forse andando anche oltre le sue speranze, una sorta di patchwork irresistibile e assai vivace. McCartney, che comunque si dimostra il più reazionario dei Fab Four, ha il suo riscatto con questa mini rock opera. Le canzoni non propongono nulla di strabiliante a livello musicale, se non un opportuno supporto funzionale; sono le melodie ad emergere, soprattutto perchè furbescamente accostate; la loro bellezza risulta accentuata proprio grazie al contrasto dei vari stili. L'atmosfera dilatata e onirica di "Sun King" trova il suo contraltare stridente nell'incedere sghembo di "Mean Mr. Mustard", che a sua volta si stempera nella frivola e tonante "Polythene Pam". Altro stacco netto è dato da "She Came In Through the Bathroom Window", slancio emotivo quasi inaspettato, che sfocia nei pregevoli giochi vocali di "Golden Slumbers". La chiassosa "Carry That Weight" è apprezzabile solo quando implode nella commovente "The End". Ultimo sberleffo del (momentaneo) deux ex machina McCartney: il bozzetto satirico "Her Majesty". In apertura di Medley troviamo uno dei pezzi migliori di Paul: "You Never Give Me Your Money" non rinuncia alle carinerie in puro stile McCartney, ma si struttura in tre movimenti diversi, ognuno di un minuto circa. Davvero notevole. Abbey Road è il miglior disco di una band che, secondo il parere di chi scrive, è sempre rimasta legata al formato 45 giri: la carriera dei Fab Four è costellata di pezzi meravigliosi, ma sulla lunga distanza del 33 giri Lennon e soci si sono rifugiati troppo spesso in composizioni di dubbio valore per riempire i minutaggi, difficilmente paragonabili con quanto ci stava regalando la musica rock in quegli anni sul formato LP. Il disco del '69, in un certo senso, non fa eccezione: una buona metà dei pezzi è costituita da canzoncine prive di velleità artistiche, ma il fatto di averle accorpate in un'entità unica mostra proprio la (tardiva) presa di coscienza dello scarso valore individuale di queste, e propone quindi un superamento, in realtà artificioso, del problema. McCartney continua a scrivere canzonette, come in passato, però ora si rende conto che di questo si tratta. Il tentativo di assommarle in un qualcosa di migliore è posticcio, frutto di un lavoro di post-produzione; ma è la presa di coscienza della propria limitatezza che rende Abbey Road diverso dagli altri dischi: in un certo senso chiude un'epoca e ne apre un'altra. Sarà il tempo del progressive, dell'hard rock, di musica più complessa, di artisti ben più abili del buon artigiano Paul. Un protagonista di una stagione intensa, fondamentale, ma ancora non pienamente matura, si rende conto di aver creato, insieme ai suoi compagni, un milieu artistico per il quale non è più adeguato. |
Paul McCartney: Voce, basso, pianoforte elettrico ed acustico, organo Hammond, sintetizzatore, percussioni Anno: 1969 |