Con parecchio ritardo rispetto all’uscita, che risale all’ormai lontano 1999, ascoltiamo per la prima volta “Propedeutika ad Contritionem (Vestram!)” dei Deviate Damaen, formazione romana dedita ad un suono fortemente elettronico, con frequenti incursioni nello sperimentale, anche se il gruppo iniziò suonando gothic metal. Di metal, a dire il vero, in questo disco non ce n’è, ma questo non significa che l’album non meriti l’ascolto, essendo molto variegato ed a tratti sorprendente.
La copertina della copia promozionale in nostro possesso mostra una foto dei componenti, che mantengono, se non altro per ricordo del passato, un’aggressiva impronta gothic, mentre il retro è provocatorio, dato che ritrae un monaco, che ferisce al costato il Cristo già morente sulla croce. Non c’è blasfemia; piuttosto ci sembra evidente la denuncia: non è più il legionario romano ad infierire sul Redentore, bensì uno dei suoi stessi seguaci, ad evidenziare la corruzione che oggi si riscontra in parecchi ambienti religiosi, ricchi di scandali (di cui stampa e televisione ci informano sempre più spesso), anziché testimoni della Fede. Il CD, pubblicato da Avantgarde Music, dura poco più di 75 minuti, anche per via del pezzo d’apertura, che si prolunga per oltre 31! “Stabat mater “deviatika”” inizia con il campionamento di vetri rotti, che dura circa un minuto, per via di una reazione a catena, su cui si erge una voce diabolica, che presto lascia il posto alla voce di un’anziana donna, a metà tra l’ubriachezza e la sofferenza. Si va avanti con delle voci innocenti, veicolo per la protesta contro alcune ipocrisie ideologiche, anche se, a nostro parere, vergogne sociali come lo sfarzo o la pedofilia non hanno colore, purtroppo; i bambini continuano a ridere, mentre una voce urla la sua esasperazione. Intorno ai 6 minuti inizia il vero Stabat Mater, naturalmente sulle note di un organo liturgico, anche questo filtrato digitalmente; poi entrano tastiera e chitarra, accompagnate da voci indemoniate che parlano in latino, mentre una campana batte lugubri rintocchi. E’ l’apertura per “La nostra offerta”, canto liturgico conosciutissimo prima dell’invasione dei gruppi religiosi giovanili; una donna singhiozza: “Filius…”. Improvvisamente, nel silenzio, ascoltiamo alcune donne mentre criticano le nuove vetrate della chiesa “che non filtrano luce”, interrotte bruscamente dall’orrida scena del sangue che scorre sulle vetrate. Le donne urlano: “I bambini no!”, come se qualcuno volesse far loro del male o portarli via, ma siamo certi che i bambini, esseri puri, non vengano invece portati in salvo e la vera punizione non sia per gli adulti, accecati dal peccato, che non si accorgono di quale sia la vera luce? Intorno ai 13 minuti una delle donne si punge cogliendo una rosa rossa, mentre spuntano rose di vari colori, tra cui proprio il rosa, simbolo di speranza, in mezzo alle note di una chitarra malinconica. Le donne sperano di trovare delle rose senza spine, ma, purtroppo per loro, giunge l’amara sorpresa: sono rimaste solo le spine! Ancora una metafora, probabilmente: che vita sarebbe se non ci fossero le spine? Non è forse il senso della vita l’alternanza di momenti di gioia e periodi di dolore, inevitabili, quindi da accettare, anche se ci feriscono? Cosa spetta a chi troppo ha peccato, se non le punture delle spine, senza la bellezza delle rose? Appare il capo di una misteriosa congregazione, che urla: “L’uomo gronda peccato!”, criticando ipocrisie religiose, politiche, e, più in generale, umane. L’uomo continua a gridare la sua rabbia ed il suo odio “contro la piaga orrenda e spaventosa apertasi sul costato della Fede”, mentre il resto della setta annuisce ed obbedisce meccanicamente (ma non dovrebbero essere “altro” rispetto alla società? Anche loro, in fondo, rappresentano un gregge di pecore, come la società odierna, contro cui il gruppo, molto spesso, si scaglia in possenti invettive); alla fine il maestro li manda ad esercitare la vendetta, gridando la celebre frase “Fate questo in memoria di me!”, naturalmente appropriandosene, dato che la Chiesa tradizionale ha infangato la vera Fede. Ovviamente, la nostra è solo un’interpretazione di ciò che abbiamo ascoltato e non abbiamo la pretesa che tutti condividano, visto che il pezzo si può prestare a svariate modalità di lettura. Siamo giunti intorno ai 23 minuti del lungo viaggio propostoci dai Deviate Damaen: ancora un coro liturgico presenta una voce femminile che si accompagna al pianoforte, teatrale alla Patty Pravo o alla Milva, per intenderci, che canta una ballata popolare, il cui tema è la morte. E se fosse la morte in persona a cantare, mentre rivisita tutta la vita del peccatore giunto al “redde rationem”? Dopo che anche un violino elettrico ha fatto capolino, seguito da rumori vari, non molto distinguibili, il brano si conclude all’insegna dello sperimentalismo e del delirio digitale. Basterebbe questo pezzo e le sue “visioni in musica” per avere già in mano un minialbum, ma il disco prosegue con “Purgazione canonica”, in cui psichedelia e distorsione iniziali lasciano lo spazio al fuzz bass, mentre la voce è a volte sospirata, in altri momenti gutturale, anche se l’eccesso di effetti, in certi momenti, rende incomprensibili le parole, che sembrano pronunciate sott’acqua. Un po’ troppo pop per le nostre distorte vedute musicali, la canzone funge ancora da spunto per critiche politiche, che stavolta condividiamo in pieno, contro l’infibulazione clandestina, pratica dolorosa, infettiva e talvolta mortale, piaga sociale portata in Italia (e nell’Europa intera) dalla crescente immigrazione. Parte una chitarra iperdigitalizzata, che ci ha ricordato molto il Billy Idol del discusso e non compreso “Cyberpunk”; la voce si fa furiosa per l’assalto finale, in combutta con la chitarra. “S:S=Spirito:Santo” inizia con un cadenzato atmosferico in latino, seguito da una donna che recita una parte del Vangelo di Luca, che sfocia nelle consuete proteste sociali. Si alza poi un’”Ave Maria” di sottofondo, che si mescola alla “Cavalcata delle Valchirie” di Wagner; dopo otto minuti un po’ noiosi si alza la chitarra, che introduce il rumore finale, puramente sperimentale, con finale ipnotico. Segue “Reazione! (autoapostolika minzione)”, rock ancora digitalizzato, su un nuovo testo di denuncia: una versione più lenta rispetto a quella dal vivo, ma la furia e l’esasperazione sono le medesime. “Haunted by a female clangour (angel from the snow...)” è un necessario intervallo di riflessione, tra psichedelia e sospiri vocali, dove finalmente possiamo apprezzare le clean vocals, a nostro parere migliori rispetto alle fasi gutturali. “I’ll teach you how to be a virgin!” è aperta da un pianoforte, che lascia presto il posto alla disco ed ad un cantato che ricorda i Depeche Mode, per concludersi all’insegna della techno. Cari Deviate Damaen, a tutto c’è un limite nella vita, tranne se, con questo brano, non intendevate dirci, leggendo tra le note, che, se i Beatles avessero composto “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band” nel 1999, anziché nel 1967, si sarebbero spinti fin qui. “Let those swallows rape my heart away” è caratterizzato da una tastiera molto atmosferica; ancora pop d’avanguardia, per un pezzo che si può considerare la ballad del CD, nei limiti di ciò che il termine può significare in un contesto simile. Un bella canzone davvero, dolce e sognante, arricchita da una voce dal timbro simile a quello di Robert Smith dei Cure. “Quando non ci sarà più nulla... (that’s the sound of my tomb!)” ha per note il suono di una cascata e per canto una voce narrante, che ci illustra una visione personale della vita e della morte. La voce suadente ed i versi altamente poetici invitano l’ascoltatore a riflettere su un ritorno alla primitività ed alla purezza, tramite il monologo interiore di un uomo che muore in simbiosi con la natura. Con le dovute proporzioni, ci sentiamo di azzardare un paragone illustre, scomodando il ricordo della dannunziana “La pioggia nel pineto”, che leggemmo in gioventù: i Deviate Damaen sono autori di una versione riveduta e corretta in chiave gotica, valida per il nuovo secolo, naturalmente senza ripudiare la grandezza dell’originale. Siamo profondamente consapevoli di aver già scatenato le ire degli studiosi e dei puristi con questa nostra eresia letteraria, ma non possiamo che rimanere colpiti dalla sensibilità profonda del morente, che richiama alla propria memoria filosofie, riflessioni, ricordi, esperienze personali (probabilmente autobiografiche), in un’esaltazione della natura pura ed incontaminata, madre e nutrice, in perfetta sintesi con il morente, mentre l’uomo tecnologico, peccatore ed ipocrita, non godrà di certo della stessa morte sublimata. Il finale è ancora altamente poetico e commovente, fondato su ciò che, secondo l’autore del testo, è il vero amore, che lo scrittore, identificatosi nell’uomo morente, si augura sopravvivrà a se stesso. A brano terminato, resta nell’animo una sensazione di concentrazione, di benessere, di armonia, di tranquillità, identiche a quelle provate quasi vent’anni fa nel leggere l’opera del Vate: è per questo che consigliamo agli scettici ed agli integralisti di ascoltare il pezzo, prima della nostra fucilazione per lesa maestà poetica, a cui siamo comunque pronti, perché pensiamo, senza falsa modestia, che le idee scomode abbiano un prezzo notevole da pagare. Sarebbe una fucilazione ingiusta, comunque, perché quelli scritti non sono certo concetti che esprimiamo per ogni canzone che ci viene sottoposta, quindi è un’opinione sincera, ragionata e, soprattutto, libera da condizionamenti. Un album “difficile”, elaborato e profondo, quindi, discontinuo nel suo continuo variare, che però è l’anima di questo lavoro: inutile pretendere lo stesso suono in ogni brano da un CD del genere, nato, probabilmente, nel segno della sperimentazione pura, della provocazione e della sfida a se stessi. Non riscontriamo blasfemia nel disco, come scrivevamo all’inizio, anche se l’ascoltatore disattento può venire facilmente ingannato; piuttosto c’è denuncia, a volte strettamente personale, in altri momenti più condivisibile, una concezione del mondo che, anche se scomoda, in democrazia va comunque rispettata e (se si ha una mente non ancora corrosa dalla televisione spazzatura, che quotidianamente invade le nostre case, per la felicità dei molti che ci vegetano davanti, dato che non hanno più la capacità di spegnerla, avendo perduto ogni capacità cognitiva) valutata criticamente, anche solo per condannarla “in toto”, purchè il verdetto giunga sulla base di un certo criterio e non derivi da una visione superficiale, tipica di chi sputa sentenze senza sapere neanche di cosa parla, altra piaga dei nostri giorni, dove tutti sono sociologi televisivi e, dal pulpito della loro ignoranza, “acculturano” le masse. Alle stesse menti aperte (da tanti punti di vista, politico, religioso e musicale compresi) di cui sopra consigliamo l’album, oltre che agli amanti della musica sperimentale o progressive, purchè armati di una certa pazienza, dato che il disco è un viaggio nella riflessione e nel delirio ed anche i più abituati alle sperimentazioni degli anni ’70 potrebbero trovarlo indigesto. 80/100
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Line-up non disponibile Anno: 1999 Sul web: |