I romani Anno Mundi sono certamente dei musicisti non omologati, che si pongono fuori dagli schemi tipici dei giorni d’oggi dato che il loro primo lavoro non è un demo, normale tappa del percorso per quasi tutte le band, bensì un album intero.
Cloister Graveyard in the Snow dura circa quarantacinque minuti ed è introdotto da uno storico e raffinato dipinto di Caspar David Friedrich, esponente del romanticismo tedesco, la cui opera venne purtroppo distrutta durante i bombardamenti subiti da Berlino nella seconda guerra mondiale. Il soggetto di copertina è un antico cimitero di campagna che riposa, avvolto da una fitta nebbia, accanto alle rovine di un’antica chiesa gotica, la cui oscura soglia sta per essere varcata da alcune lugubri figure vestite di nero: un tema che non può non richiamare alla mente i primissimi Black Sabbath e quelle tematiche maligne che resero immortali i primi tre capolavori (a favore dei lettori più giovani, precisiamo che si tratta di “Black Sabbath”, “Paranoid” e “Master of Reality”) dei Maestri inglesi, che a partire da “Vol.4” modificarono le loro coordinate sonore spingendosi su territori musicali differenti, ma sempre coerenti ed apprezzabili. La copia promozionale in nostro possesso è priva di libretto e testi, ma la versione in vinile (stampata in tiratura limitata a sole cento copie numerate ed in vendita esclusivamente su eBay) è accompagnata da parecchi gadget (la suddetta copertina che si apre in quattro parti e diventa un poster 60 x 60, come si usava negli anni settanta del secolo scorso; i testi, la biografia e tre foto del gruppo; un poster 60 x 90 autografato, acquerellato a mano e diverso da copia a copia), mentre nel CD che sarà presto distribuito nei negozi saranno aggiunti due inediti e le versioni prolungate di due brani presenti anche sul vinile. L’album è stato registrato presso i Three Fates Recording Studios di Roma dal fonico Paolo Lucini - che si destreggia abilmente anche nelle vesti di arrangiatore e di musicista – poiché questi studi combinano le tecniche digitali, ridotte al minimo indispensabile, con il tradizionale procedimento analogico rappresentato dal nastro magnetico, in modo da riprodurre un suono che possa rievocare quello dei primi anni settanta. L’apertura è affidata all’hard rock cadenzato “Scarlet Queen” che utilizza la doppia voce, seguito dal lungo doom “The Shining Darkness”, nettamente migliore del pezzo precedente; “Dwarf Planet”, che dura circa dieci minuti, inizia con un campionamento bucolico accompagnato dalla chitarra acustica, ma l’atmosfera viene presto interrotta da un inesorabile doom e da un originalissimo sax che richiama alla memoria i Van Der Graaf Generator, quindi, dopo un indurimento del suono, l’assolo di chitarra rende libero il finale al pianoforte. “Gallifreyan’s Suite” omaggio alla saga televisiva di Doctor Who, dura ben undici minuti, come è naturale che sia per un brano composto da una formazione che attinge agli anni settanta, periodo in cui le suite erano molto frequenti: il primo ritmato movimento chiamato “Access to the 4th Dimension” è concluso da un assolo che ci trasporta nell’atmosfera zeppeliniana di “Tardis” in cui si intrecciano percussioni, chitarra acustica, campionamenti ed effetti di tastiere, per poi giungere al variato doom “Timelord” su cui inizia il cantato, concluso da ulteriori effetti. La brevissima canzone “Cloister Graveyard in the Snow” è interamente dominata dalle tastiere, più precisamente da un suono cupo e tetro, freddo e nebbioso, con un finale sussurrato che introduce l’aggressiva “God of the Sun”, caratterizzata dalla doppia voce, da ben due assoli e dal basso in netta evidenza nel finale. Il suono è molto vario per via dei parecchi cambi di formazione subiti dal gruppo nel tempo, ma anche per via di alcune partecipazioni speciali di musicisti appartenenti ad altre formazioni, per cui le voci variano da tonalità dark non molto estese, che ricordano lontanamente quelle di Doug Ingle degli Iron Butterfly, ad acuti lancinanti nel tipico stile di Robert Plant dei Led Zeppelin, ma sono anche capaci di momenti oltretombali, aggressivi o recitati. In merito agli altri strumentisti la tecnica non è certo in discussione, dato che si ascoltano parecchi assoli ed elementi di matrice progressive rock che si innestano in modo ottimale su una ritmica orgogliosamente doom. Da quanto appena scritto risulta evidente che non siamo davanti ad una banale rilettura dei canoni sabbathiani, ma ad un’integrazione di questi ultimi con delle variazioni di natura progressive per il raggiungimento di suoni che appaiono intatti nel loro fascino originale grazie ad un eccellente lavoro in fase di produzione. Consigliamo assolutamente questo gioiello professionale ed affascinante agli appassionati del doom, degli anni settanta e dell’hard rock inglese più raffinato, ma ci piace concludere questa recensione con due domande, di cui una volutamente retorica, che si pongono il proposito di far riflettere i più attenti lettori di Artists and Bands e gli addetti ai lavori più competenti. Com’è possibile che ogni volta che un lavoro discografico ci colpisce in modo notevolmente positivo ci troviamo davanti ad un’autoproduzione? E’ il nostro orecchio deviato a gradire in modo scriteriato tutti gli scarti del mercato attuale o sono le etichette a dare troppo spazio a prodotti commerciali e troppo poco a dischi suonati con il cuore ed il cervello, frutto di infinita passione e soprattutto – fattore non secondario - senza fini di lucro? 84/100
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Alessio Secondini Morelli: Chitarra, percussioni, cori Anno: 2011 |