L’espressione In-A-Gadda-Da-Vida non ha alcun significato: non è altro che la frase In A Garden Of Eden recitata velocemente e con marcato accento americano.
Oggi, a distanza di 40 anni da quando fu ideata, appare velata di intimo misticismo, dotata di un fascino seducente che ha il sapore dell’immortalità. È un privilegio concesso a pochi: vengono in mente, fra gli altri titoli, "Firth Of Fifth", coniato dai Genesis della compagine Gabrielliana, e "A Hard Day’s Night" dei primissimi Beatles (NB: proprio come In A Gadda Da Vida, entrambi sono privi di senso: il primo è un gioco di parole in cui la parola Forth del fiume scozzese Firth of Forth, si pronuncia esattamente come fourth, cioè “quarto”, sostituita da Gabriel con firth, cioè “quinto”; la traduzione del secondo – partorito non già da John Lennon, come abitualmente si ritiene, ma da Ringo Starr – suona un po’ come “Sera di giornata pesante”). Ma se, etimologicamente parlando, l’album de quo è entrato nella storia del rock, lo stesso non si può dire per almeno la metà della musica ivi contenuta, espressione del più classico (e commerciale) acid rock di fine anni ’60. Nel primo lato, il banale pop da classica di "Flowers And Beads", le prevedibili acidità lisergiche di "My Mirage" e "Termination", i Doors scimmiottati in "Most Anything You Want", sebbene in contesti assai più dirompenti, riescono a generare solo sensazioni di noia, fra sbadigli e distrazioni. L’unico momento degno di nota è "Are You Happy", il brano più duro dell’intero lavoro che, fra continui cambi di tempo, alterna gli individualismi acidi della chitarra, ai protagonismi di un organo dal suono grezzo e dirompente. Il lato due è interamente occupato dal brano omonimo. E qui, forse, ci si trova in prossimità della zona “mito”: un basso cavernoso concepisce un pesante ostinato sul quale l’organo genera continui crescendo dal sapore quasi apocalittico, la chitarra innesta interventi aspri e graffianti e la batteria si ritaglia una manciata di minuti per un assolo accattivante, sebbene non particolarmente complesso. Psichedelia, sperimentazioni e asprezze si alternano in 17 minuti talmente inusuali per l’epoca, che la critica (forse subliminalmente influenzata dal titolo del primo album, Heavy), descrisse le risonanze dei Butterfly utilizzando l’espressione heavy rock, allora completamente inedita. Pur essendo manifestazione di una musica assai distante dalle pacate sonorità care al quieto e disteso uditorio del movimento Flower Power, a cui oggi viene erroneamente associato, l’album vendette tre milioni di copie (un vero record per la Atlantic del periodo) e fu il primo, nella storia del pop, a conquistare il disco di platino. Voto: 85/100 |
Doug Ingle: voce, organo Anno: 1968 tracklist |