Se l’anno dovesse concludersi ora, potremmo tranquillamente dire che le due cose che ricorderemmo di più di questo 2013 sono RAM dei Daft Punk e …Like Clockwork dei Queens Of The Stone Age. E non tanto, o non solo, per i dischi in questione, ma per l’enorme ondata di hype che hanno sollevato negli ultimi mesi, grazie ad un marketing intelligente, ben mirato e di qualità, oltre che, ovviamente al fatto di essere due grandi nomi assenti dalla scena discografica da un bel po’(insomma, se non consideriamo la colonna sonora di Tron: Legacy , e Them Crooked Vultures). Il successore di Era Vulgaris, del 2007, era atteso per il 2011, ma a causa di un grave incidente chirurgico subito dal leader della band (pare che le complicazioni di un intervento al ginocchio abbiano addirittura fermato per qualche secondo il cuore del musicista) il tutto era stato rimandato a data da destinarsi. Poi, da quando l’estate scorsa alcune foto annunciano l’ingresso del gruppo in studio, i QOTSA, consci dell’attesa che già circondava l’album, tentano di raddoppiare: e così, mesi prima che fossero resi noti titolo, artwork e data di uscita, parte una parata di comunicati con disegni e frasi allucinate, telefonate inquietanti sui cellulare di coloro che avevano inserito il proprio numero sul nuovo sito del gruppo, annunci a singhiozzo sulle ospitate. E che ospitate: i vecchi compagni Dave Grohl, Mark Lanegan e Nick Olivieri, nuove leve (Alex Turner degli Arctic Monkeys), giganti come Trent Reznor, presenze difficilmente spiegabili come Jake Shears degli Scissors Sisters e, addirittura, Sir Elton John (pare che abbia chiamato Josh Homme sostenendo che alla band mancava una vera “queen”. Risposta: “dolcezza, non sai quanto”). Infine, l’idea vincente di presentare anteprime di alcuni pezzi insieme a dei brevi video a cartoni animati, mini-cortometraggi su loschi figuri e losche imprese le cui storie si collegano con risvolti apocalittici sullo sfondo di una fantomatica “città” nel deserto, il tutto affidato alla sapienti mani di Boneface, responsabile di tutto l’artwork del disco. L’interazione fra musica e arti visuali, e in particolare tra musica e video making, è una delle tendenze più promettenti della musica contemporanea (vedi il successo di Woodkid), ma raramente capita di vedere gruppi rock di un certo peso interessarsene; l’idea è quella di dare ad un album un’identità grafica precisa, persino una sorta di storia, e di trasformarne l’uscita in qualcosa di graduale e coinvolgente; c’è da sperare che la cosa non si fermi qui. Siccome, alla fine, nell'attesa generale l’album è uscito, e pure da qualche giorno, è ora di entrare nel merito: …Like Clockwork è un disco non semplice, che sacrifica un po’ del tiro a cui ci avevano abituato per giocare carte meno dirette e a presa meno rapida. Certo, si sente un po’ la mancanza di qualche pezzo tirato e cattivo, ma francamente ho iniziato a pensarci poco dopo qualche ascolto, facendo caso ai dettagli degli arrangiamenti, dei suoni e degli effetti, della produzione, delle melodie. In effetti, volendo usare un termine fin troppo abusato, e quindi mi si perdonerà facilmente se ne abuso anche io, questo è un disco “maturo”, per certi versi molto più intimo, sicuramente influenzato anche dallo sconforto e dalla confusione seguiti al grave infortunio del cantante. Pur senza operare stravolgenti cambi di rotta, senza abbandonare (almeno non del tutto) lo spirito da rock&roll badass, Homme e la sua banda portano il carrozzone in una dimensione nuova, arricchendo il sound con sonorità e strumenti che raramente avevano trovato spazio nei lavori precedenti: più sintetizzatori, più tastiere, una terza chitarra da buttare dentro all’occorrenza, addirittura archi e, in particolare, un pianoforte spesso in primo piano, una delle sorprese più belle dell’album; le melodie fanno rotta verso lidi più classici, con un gusto un po’ retrò che porta, da un lato, a frequenti puntate hard rock-oriented (“Fairwather friends”, che per struttura e riffaggio mi ricorda un po’ i Them Crooked Vultures), dall’altro a mettere giù un paio di ballate malinconiche (non credo sia un caso se la prima canzone di questo album nata dopo la near-death experience di Homme sia proprio una ballad, “The Vampyre”) su un’ossatura di pianoforte che per il repertorio della band californiana sono una grossa novità che si rivela tutta positiva, grazie a giochi quasi floydiani di chitarre e sintetizzatori, e alla prestazione maiuscola di Homme, già in stato di grazia vocale in tutto il disco, che si fa qui particolarmente evocativo e interpretativo grazie anche a delle liriche intime e tormentate, confessioni a cuore aperto che non sembrano venire dall’uomo di “Feel Good Hit Of The Summer”. Ovviamente questa non è la (sola) regola: “Keep Your Eyes Peeled”, traccia iniziale, apre le danze con un riff semplicemente cattivo, roba che avrebbe potuto trovare posto nell’omonimo esordio della band, per poi evolversi imprevedibilmente fino ad un apertura che ricorda qualcosa di Songs for the Deaf, in una specie di carrellata in ordine cronologico; “I Sat By The Ocean” è un pezzo facile e diretto che avanza baldanzoso, ammiccante, andandosi a mettere di filato al fianco di canzone come “No One Knows” e “Tangled Up In Plaid”, sue dirette antenate per melodie e struttura; non mi stupirei di vederlo come prossimo singolo. Singolone apripista dell’album, invece, è stato “My God Is The Sun”, e a buon diritto. Si tratta di un’eccellente drive song, nel solco di “Go With The Flow” & co, che farà felici, se non gli imbottigliatissimi automobilisti nostrani, almeno quelli californiani che posso permettersi una corsa a tavoletta lunga la “desert road” che, citata in apertura, certifica la provenienza DOC dai vigneti QOTSA. Le martellate di Mr. Dave Grohl e il giusto dosaggio delle tre chitarre sono la ciliegina sulla torta di una pezzaccio tiratissimo che caricando plurime volte a testa bassa si è già imposto come classico della band. Se dovessi scegliere a chi dare la coppa del vincitore, evitando soluzioni di comodo tipo “vince il songwriting di Josh Homme, che dopo uno stop insolitamente lungo dà ancora lezioni a tutti”, la darei ad “I Appear Missing”. “Like running in a dream”, così parlava del disco un comunicato stampa rilasciato dal gruppo, e questo è più o meno quello capita con questo pezzo: correre in un sogno sospesi come il protagonista del video, e in un’atmosfera che è sospesa pure lei, tra arpeggi, melodie da nodo alla gola e chitarre taglienti come rasoi, per finire in un tripudio di assoli squillanti e voci trasognanti . Sotto questo aspetto, però, se la gioca tutta con “Kalopsia”, anche questo un trip onirico fra bordate di distorsioni e melodie a metà fra lo zuccherosamente pop e l’inquietante, il tutto con la feconda collaborazione di Trent Reznor, ma un gradino più sotto per la mancanza di quel guizzo finale che invece “I Appear Missing” dimostra in pieno, rivelandosi probabilmente uno dei pezzi migliori del repertorio della band. Invece la palma dello sconfitto va alle numerose collaborazioni. Intendiamoci: sono sicuro che la presenza in studio di tutta quella gente abbia influenzato positivamente la creazione del disco, ma chi si aspettava di sentire un vero duetto fra Josh Homme e Trent Reznor o Elton John, chi si aspettava un ritorno ai tempi di Rated R con Lanegan e Olivieri a fare da lead singers, rimarrà deluso. Tranne qualche eccezione (il piano di Elton John su “Fairweather Friends”), la maggior parte degli ospiti rimane nascosta (alzi la mano chi ha sentito la voce di Turner o Olivieri!) o si limita a interventi poco ingombranti (Trent Reznor su “Kalopsia”). La voce che ho sentito di più è quella di Shears su “Smooth Sailing” (che in realtà il sito dei QOTSA attribuisce a Shuman, anche se precedentemente si era parlato di una collaborazione su quel pezzo della voce degli Scissor’s Sisters, già co-autore di “Keep Your Eyes Peeled”), e francamente non è che la cosa mi abbia reso molto felice: parliamo di un pezzo già abbastanza debole, un indie-blues sudicio e tamarro che sicuramente diverte, anche l’alternanza fra il falsetto e la voce grave di Homme ha il suo perché, ma che evoca echi un po’ eravulgarisiani stonati col resto. Ma, insomma, per quanto potessero farci piacere le collaborazioni, il disco lo sentiamo per la musica e non certo per masturbarci pensando al numero di featuring, e devo dire che ho accusato poco la mancanza. 85/100 |
Joshua Homme: voce, chitarra Anno: 2013 Tracklist |