Era il 1998 quando nel massimo del vigore, il rock-prog moderno risorgeva inaspettatamente a nuovo splendore dopo quasi un ventennio di default da parte di quelle che erano state le tendenze musicali che avevano dominato il decennio a cavallo tra fine anni ’60 e fine anni ’70.
In questa nuova primavera musicale rifiorirono infatti etichette discografiche e complessi musicali che ancora oggi perpetrano la passione per lo stile musicale che è forse la massima espressione artistica di tutti i generi e sottogeneri derivati dalla musica, oramai in maniera troppo riduttiva, definibile come “Rock”. Erano quindi gli anni dell’esplosione del fenomeno Dream Theater & co. (Liquid Tension, Platypus, Mullmuzzler), della competizione virtuosistica tra band del calibro dei Porcupine Tree, Fates Warning, Spock’s Beard, Flower Kings, Magellan, Ayreon, Pain of Salvation, Shadows Gallery e di tutto ciò che gravitava nell’orbita artistica delle label di settore come Inside Out, Magna Carta, Transmission, etc..
In questo guazzabuglio caleidoscopico di progetti musicali, a volte forse troppo forzatamente rimescolati su se stessi (vedi miriade di band nelle quali compariva e sarebbe comparso in seguito Roine Stolt dei Flowers Kings) spuntava una proposta il cui appellativo era quanto di più appropriato si potesse associare ad un organico composto interamente da quelli, che senza mezzi termini, possono essere definiti prog-men: Explorers Club. I partecipanti all’album in questione, intitolato Age of Impact, erano, di fatto, tutti personaggi di spicco dell’ambiente prog di nuova e di vecchia data, per la copertura di un arco temporale pari ad oltre un trentennio, tra cui Terry Bozzio, Steve Howe e Billy Sheehan, ai quali si affiancavano gli emergenti John Petrucci, James LaBrie, D.C. Cooper, Derek Sherinian, altri validi musicisti e dulcis in fundo Trent Gardner.
Proprio a quest’ultimo nome va infatti il plauso per la realizzazione di questa eccezionale opera. Autore di tutti testi e di tutte le musiche, nonché catalizzatore di tutto il comparto artistico e coordinatore dell’intero progetto musicale, Trent Gardner (scomparso l’11 Giugno 2016 a soli 55 anni, proprio pochi giorni dopo la stesura di questa recensione) era all’epoca il fondatore ed uno dei membri dei Magellan, gruppo nel quale oltre a cantare, si destreggiava nell’utilizzo delle tastiere e del trombone, strumento quest’ultimo raramente riscontrabile in ambito prog. Album quindi nel quale, vista la particolare numerosità dei partecipanti, necessitava la presenza di un coordinatore con le idee chiare. E così fu.
Nel pieno rispetto dei canoni prog, l’incisione composta da sole cinque tracce di considerevole durata senza soluzione di continuità, risultava così essere una apoteosi di virtuosismi, di melodie ricercate, di sovrapposizioni sonore, di segreti nascosti, di incisività, di sonorità all’avanguardia e di complicità artistica. I brani risultarono così dei capolavori compositivi ed esecutivi, in maniera lampante, grazie soprattutto alla attenta calibratura di Gardner. Spettacolari furono le prestazioni strumentali di Terry Bozzio e John Petrucci su tutti, e quelle vocali da ovazione di D.C. Cooper e Matt Bradley.
Dopo l’incipit acustico, si veniva catapultati nel brano di apertura della durata di sedici minuti, strutturato su una ritmica martellante e sui pregevoli intrecci corali ad opera di Bret Douglas e Trent Gardner, ed arricchito dai ripetuti assoli di Petrucci, dopo di che si passava alle atmosfere più sognanti ed evocative di “Fading Fast” che decollavano sul finale in un favoloso crescendo strumentale, ma soprattutto vocale di Matt Bradley. Si procedeva così, con un brusco stacco, alle ritmiche cadenzate di “No Returning”, nella quale il buon LaBrie la faceva da padrone con i suoi inconfondibili vocalizzi, per poi essere introdotti a “Time Enough” nella quale D.C. Cooper dava sfoggio della sua eccellente estensione e tecnica vocale, con un fading del brano da brividi. Si giungeva infine a “Last Call” nella quale, riprendendo il tema portante della prima traccia, Petrucci e Bozzio davano libero sfogo alle proprie capacità virtuosistiche, fino all’apoteosi finale per il quale le stesse note di accompagnamento all’ascolto del libretto recitavano: "Petrucci solo……Bozzio goes wild". Un album (da ascoltare a volume sostenuto con un buon impianto, mi raccomando), in perfetto mix tra innovazione e tradizione, che a mio avviso merita di essere menzionato tra i più belli dell’intera storia della musica rock. Onore quindi al merito di tutti i componenti del progetto, ma soprattutto al suo creatore: Trent Gardner.
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Trent Gardner: voce, trombone, tastiere James LaBrie: voce D. C. Cooper: voce Matt Bradley: voce Bret Douglas: voce Wayne Gardner: chitarre acustiche, elettriche, basso Steve Howe: chitarra acustica Frederick Clarke: chitarra John Petrucci: chitarra James Murphy: chitarra Michael Bemesderfer: flauto, wind controller Derek Sherinian: tastiere Matt Guillory: tastiere Billy Sheehan: basso Terry Bozzio: batteria Brad Kaiser: percussioni midi
Anno: 1998 Label: Magna Carta Genere: Rock-prog, Metal-prog
Tracklist: 01. Impact 1 - Fate Speaks 02. Impact 2 - Fading Fast 03. Impact 3 - No Returning 04. Impact 4 - Time Enough 05. Impact 5 - Last Call
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