Roma, 27 Giugno 2011 - Pala Atlantico
Servizio fotografico a cura di Marco Dell'Otto: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. e Ombretta Ciarrocchi Sono stati necessari ben più di dieci anni di pazienza perchè i Primus facessero ritorno nel nostro Paese, ma al tirar delle somme ne è valsa davvero la pena. Due date: la prima nel pavese, la seconda, che vi raccontiamo, nella capitale al Pala Atlantico. A preparare il terreno c'è un altro trio che apre buona parte dei concerti del tour, gli Hot Head Show, poco noti forse al grande pubblico e con una presenza altisonante dietro i tamburi: Jordan Copeland, figlio del grande batterista dei Police. Mentre scrivo sta per uscire la loro fatica d'esordio intitolata The Lemon LP. Suonano un genere molto contaminato, fragorosi. Paradossalmente i loro volumi sono stati migliori di quelli dei Primus, complici i pasticci tecnici del fonico e la discutibile acustica della location. Godibili ma con un set un pò troppo lungo: quasi un'ora. Rapido avvincendamento della strumentazione da parte dei tecnici e con il lento dissolversi della illuminazione risuonano le prime note da baraccone circense che accompagnano il loro ingresso. Si illuminano le tute dei giganteschi astronauti che svettano nella scenografia del palco; sul casco del pioniere lunare Buzz Aldrin, si avvicendano ad una velocità frenetica immagini di ogni risma, inquietante quella di Eugene Hütz, cantante e autore dei testi dei Gogol Bordello. Il trio è stato leggermente ritoccato. Accanto a Claypool e LaLonde, alla batteria figura Jay Lane che non è esattamente un parvenu, avendo suonato prima dell'avvento di Tim Alexander nella formazione originale dei Primus. E' infatti nei Sausage, nel pugno di anni che procede tra il 1984 e il 1988, nella Frog Brigade di Les Claypool e lo si trova anche nei suoi dischi da solista. Partenza col botto con "To Defy The Laws of Tradition", estrapolata dall'ottimo primo album, Frizzle Fry, brano con omaggio ai Rush in apertura, basso chitarra e batteria con rullate rapidissime, raddoppi, stacchi impressionanti, strizzatine d'occhio ai postulati del jazz. Tutto ad una velocità disorientante. Nei primi tre pezzi, tuttavia, i registri di voce e chitarra non sono apparsi affatto equilibrati, bensì piuttosto compressi e nel complesso la batteria di Lane è risultata attutita nei toni bassi. C'è stata poi una finestra molto ampia riservata alla esposizione di un buon numero di pezzi tratti dal nuovo album, intitolato Green Naugahyde che uscirà nel mese di Settembre, ben quattro: "Hennepin Crawler", "Lee Van Cleef", "Tragedy's a' Comin'" e "Jilly's on Smack", brano vorticosissimo. L'impressione, già avuta ascoltandoli su youtube, è che non ci si debba attendere nessuna svolta epocale da Claypool rispetto a quanto proposto da più di due lustri anche se sembra vistosa una certa sterzata in senso psichedelico impressa alle sonorità; probabilmente è una conseguenza dell'abbondante impiego dell'effettistica cui il bassista non sembra disposto a rinunciare a cuor leggero. Ma una fetta del concerto ha premiato anche i fan della prima ora, regalando una serie di classiconi come il retro folk in 3/4 di "Over The Falls" (dal bistrattato Brown Album) in cui il contrabbasso viene soppiantato dal celeberrimo e costoso Dobro, Michael Kelly Bayou 4, tirando anche la volata ad un gran solo di LaLonde. Oppure "Fisticuffs", sempre del 1997, linee di basso più semplici e proposto in tutta la sua oscurità. Balzava alle orecchie la presenza di alcuni innesti psichedelici eccessivamente dilatati e forse troppo gravosi per le sonorità già sinuose, per marchio di fabbrica, della band. Impressione rinnovata nell'amara ed ironica "American Life" che taglia a fette il pubblico con il suo riff: i delay inseriti nei brani storici appaiono però troppo corposi e contribuiscono a frantumarne il ritmo. Per arrivare ad "Eleven" (sempre da Sailing The Seas Of Cheese), Claypool fa il numero del travestimento; con maschera da primate suona la celebre whamola, dotata di un manico analogo a quello del contrabbasso ed un'unica corda suonata colpendola con una bacchetta da batteria e comprimendola con una mano o variandone la tensione per modificarne l' intonazione. Dopo la lacerante intro in 11/8 di LaLonde, la sezione ritmica si fa ricca, la batteria dialoga con le esigue e profonde note di basso; in seguito il pezzo si apre, con un cantato tutto incentrato su un singolare equilibrio tra coinvolgimento emotivo e tenuità. L'apoteosi si raggiunge quando Claypool inforca il celebre fretless sei corde, il Rainbow Bass per intenderci. Il pubblico comincia a subdorare qualcosa che puntualmente si verifica. Due colpi mortali: prima una tiratissima "My Name is Mud", un’unica secca battuta in perfetta simbiosi tra basso e batteria, un sottile cenno di voci e qualche intervento volutamente sbilenco di LaLonde alla chitarra, asciutta. Devastante. Poi "Jerry Was a Race Car Driver", che semina letteralmente il panico nel Pala Atlantico con i suoi molteplici innesti di funk, jazz-rock ed hip-hop, ostentando l'eccellente equilibrio e la raffinatezza per l'arrangiamento che l'ha resa celebre (girando sorprendentemente anche su MTV!). C'è spazio ancora per un solo bis, impersonato dalla baldoria travolgente in salsa Beefheart di "Pudding Time" (ancora da Frizzle Fry). Poi calano le luci. I due enormi astronauti Aldrin e Armstrong sembrano salutare dall'iperspazio, con la manona guantata, noi e quei marziani che davanti a loro hanno fatto davvero terra bruciata. Per arrivare ad "Eleven" (sempre da Sailing The Seas Of Cheese), Claypool fa il numero del travestimento; con maschera da primate suona la celebre whamola, dotata di un manico analogo a quello del contrabbasso ed un'unica corda suonata colpendola con una bacchetta da batteria e comprimendola con una mano o variandone la tensione per modificarne l' intonazione. Dopo la lacerante intro in 11/8 di LaLonde, la sezione ritmica si fa ricca, la batteria dialoga con le esigue e profonde note di basso; in seguito il pezzo si apre, con un cantato tutto incentrato su un singolare equilibrio tra coinvolgimento emotivo e tenuità. L'apoteosi si raggiunge quando Claypool inforca il celebre fretless sei corde, il Rainbow Bass per intenderci. Il pubblico comincia a subdorare qualcosa che puntualmente si verifica. Due colpi mortali: prima una tiratissima "My Name is Mud", un’unica secca battuta in perfetta simbiosi tra basso e batteria, un sottile cenno di voci e qualche intervento volutamente sbilenco di LaLonde alla chitarra, asciutta. Devastante. Poi "Jerry Was a Race Car Driver", che semina letteralmente il panico nel Pala Atlantico con i suoi molteplici innesti di funk, jazz-rock ed hip-hop, ostentando l'eccellente equilibrio e la raffinatezza per l'arrangiamento che l'ha resa celebre (girando sorprendentemente anche su MTV!). C'è spazio ancora per un solo bis, impersonato dalla baldoria travolgente in salsa Beefheart di "Pudding Time" (ancora da Frizzle Fry). Poi calano le luci. I due enormi astronauti Aldrin e Armstrong sembrano salutare dall'iperspazio, con la manona guantata, noi e quei marziani che davanti a loro hanno fatto davvero terra bruciata.
|
Les Claypool: Voce, basso Data: 27/06/2011
|