Il primo disco dei Labirinto Di Specchi si caratterizza per sonorità totalmente strumentali, inframmezzate da interventi recitati dal poeta e narratore Paolo Carelli, già con i Pholas Dactylus, band minore del panorama progressivo italiano forte di un album di spessore, Concerto Delle Menti, uscito nel 1973. Hanblecheya è di fatto un concept album dedicato ai nativi americani, in particolare ai Sioux, come cristallizzato dal titolo stesso dell’opera, parola che allude alla cerimonia iniziatica grazie alla quale ogni individuo intraprende il suo personale percorso di vita, passando dall’adolescenza all’età adulta.Musicalmente parlando, l’album è certamente inusuale, giacché gli artisti interessati al progetto percorrono un ampio range musicale che, partendo dal sinfonismo più genuino, giunge nei pressi della border line che separa il rock progressive dalla psichedelia. Sette atti di rarefazioni sonore, mistici intrecci, ascetiche dilatazioni, nel quale l’esordiente combo di Siena unisce, con misurata attendibilità, il magnetismo tipico dei Floyd più liquidi, la delicatezza della scena canterburyana, la cosmicità sinuosa dei primi Gong, lo space rock ossessivo tipico degli Ozric Tentacles più ispirati, non disdegnando più recenti influenze sonore (Porcupine Tree), talvolta del tutto inusuali (Mogwai), mai proposte in maniera incerta, sempre ben contestualizzate. L’unica pecca dell’album, a parere di chi scrive, riguarda la minor aderenza delle tematiche indiane alla compagine progressiva. Sono entrambi valide, se prese singolarmente, ma la loro improbabile coesione risulta un tantino coercitiva, generando qualche perplessità: nell’immaginario collettivo, infatti, gli indiani d’America sono certamente associati a più adeguati contesti folk-rock e talvolta southern, mentre il prog evoca spesso immagini surreali e fantasiose, decisamente lontane, concettualmente parlando, dalla maestosità del Gran Canyon o da mandrie di bisonti che percorrono verdi praterie. 81/100
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Raffaele Crezzini: Batteria Anno: 2011 |