Diciamo la verità: quando si parla di Neil Young, i "lost album", verosimilmente a vocazione leggendaria, non si contano propriamente sulle dita di una mano. La questione, alla fine dei conti, si riduce ad una certa ordinarietà dello "straordinario" che non fa più notizia. Prendiamo il caso di "Chrome Dreams", una delle tante "inedite" perle del singer, asseritamente recuperate dagli archivi della sua storica label Reprise (uscita prevista per il prossimo 11 agosto 2023): il brano "Star of Bethlehem", ad esempio, ivi incluso, è stato recuperato dalle sessions di "Homegrown" (1974), poi inserito in "American Stars 'n Bars" (1977); discorso analogo per "Captain Kennedy", "Powderfinger" e "Pocahontas", pezzi incisi nel 1976 e destinati all'album "Hitchhiker", poi confluiti altrove (la prima comparve su "Hawks & Doves" nel 1980, le altre su "Rust Never Sleeps", uscito l'anno precedente). Il problema è che, a loro volta, sia "Hitchhiker", sia "Homegrown", non soltanto erano album perduti e altrettanto leggendari, ma erano anch'essi composti da brani che già avevano trovato posto in altri titoli. Ed infatti - accompagnati da comunicati di tenore analogo, nei quali si sprecavano i termini "leggendario", "disco perduto", "gemma rimasta nel cassetto" e altre magniloquenze simili - sono stati pubblicati 30 anni e passa dopo (rispettivamente nel 2017 e nel 2020). In questo modo, però (e lo capisce anche il profano delle dinamiche discografiche), non si finisce mai: in un gioco che sembra attingere dalla tradizione delle scatole cinesi, chissà per quanto tempo potrebbe continuare la Reprise a proporre presunti album sommersi del cantante canadese pescando tra versioni diverse di brani che, in fin dei conti, sono ormai straconosciuti. Premesso che moltissime discografie definitive di tanti artisti e gruppi famosi sono il frutto di ripensamenti e ripescaggi (con album composti in un modo che invece non doveva essere ma che poi è stato), non esiste al mondo nessun altro abile come Neil Young a tirare fuori dal cilindro l'ennesimo album sommerso, composto da pezzi noti, ma in versione inedita, facendo abboccare all'amo uno stuolo pressocché infinito di beoti musicofili. Ci si chiede: ma non si fa prima a pubblicare una compilation di tali brani corredata da ricchi crediti? In fondo, se all'epoca "Hitchhiker" oppure "Homegrown" oppure "Chrome Dreams" non videro la luce quando furono concepiti, una ragione ci deve pur essere, no? Eppure, le cose vanno sempre alla stessa maniera: brani che dovevano uscire in un lp, poi dirottati verso altri titoli, in una versione o nell'altra, vengono successivamente ripescati miracolosamente per andare a comporre uno di questi ennesimi album ritrovati. Fatta questa doverosa premessa, va chiarito che questo non è il capitolo I di "Chrome Dreams II", uscito nel 2007. Sono due cose distinte e separate giacché quest'ultimo si sostanzia quale raccolta di brani attinti dagli anni '80 e non quale album perduto rimasto nel cassetto. Si tratta, più nello specifico, di brani prevalentemente incisi dal vivo in epoca più recente, soggetti ad un minimo lavoro di sovraincisione presso lo studio Feelgood's Garage, vicino a Redwood City, in California. Tornando quindi a "Chrome Dreams", i brani veramente inediti ivi contenuti sono "Pocahontas", qui presente nella stesura originaria (quella cioè priva degli overdubs aggiunti che apparve poi su "Rust Never Sleeps"), "Hold Back the Tears", in una versione diversa da quella inclusa su "American Stars 'n Bars", "Sedan Delivery" e "Powderfinger", da noi apprezzate nel citato live "Rust Never Sleeps" (la prima è pescata direttamente dalle sessions in studio di "Zuma"; la seconda è presente in una suggestiva versione acustica forse migliore di quella resa nota all'epoca. I testi dei citati “Sedan Delivery” e “Hold Back the Tears”, invece, sono diversi da quelli resi noti in seguito), "Stringman", già apparsa per la prima volta nel live "Unplugged" del 1993, sebbene questa sia la interpretazione live attinta da "Odeon Budokan" (altro disco perduto già incluso in "Neil Young Archives Volume II: 1972–1976" che a breve sarà pubblicato per la prima volta in vinile). Il resto, se non ci siamo sbagliati, è già tutto edito, spalmato tra gli album "American Stars 'n Bars", "Hawks & Doves", "Rust Never Sleeps" e "Comes a Time". In conclusione, parlando di Neil Young, quando si pesca dagli anni '70 si pesca sempre bene, quindi il presente disco è certamente consigliato, ma soltanto ai fan più fedeli, se non addirittura integralisti; per tutti gli altri, si rimanda alla discografia storica, peraltro già di suo assai corposa. Per chi fosse orientato all'acquisto, occhio alla presenza delle numerose versioni bootleg, con stesso identico titolo ma con copertine diverse da quella ufficiale. Al riguardo, la discografia pirata (spalmata equamente tra lp e cd, pure con la inusuale presenza di un formato musicassetta), può essere virtualmente divisa in due, a seconda della tracklist riportata: le edizioni che includono 12 brani, gli stessi della versione ufficiale, pur in diverso ordine (in un caso i brani sono 11, stante l'assenza di "Will to Love"), e quelle con tracklist più dilatata, forte di 15/19 brani aggiuntivi (considerando l'edizione più completa, i brani in più sono: "White Line", "The Old Country Waltz", "Hey Babe", "Campaigner", "Home On The Range", "Birds"). |
Musicians and tracklist: |