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Gods Of Metal 2008
Day 2

Bologna, 28 Giugno 2008 - Arena Parco Nord

La seconda giornata è quella più attesa, dato che sono presenti vari gruppi legati ai settori più estremi del movimento heavy metal, in particolare i blasonati Slayer; per capirci, non è che gli Iron Maiden, headliner della prima giornata, siano stati poco apprezzati, ma è anche vero che le formazioni che li hanno preceduti, pur essendo formate da validi musicisti, non hanno lasciato grande euforia tra il pubblico, anche perché non molto conosciute o esponenti di generi musicali diversi, come l’hard rock - o addirittura il rock commerciale nel caso di Lauren Harris, presente in scaletta solo grazie alla fama del padre Steve e non certo per i propri meriti artistici, vicini allo zero assoluto.

Il primo gruppo a salire sul palco sono i vincitori del demo contest targato Gods of Metal, cioè i Brain Dead, dotati di buona tecnica e molto trascinanti, che eseguono (senza inventare niente, ma di certo con competenza) un interessante thrash metal di vecchia scuola, per la gioia di tutti gli appassionati di un settore ingiustamente trascurato negli ultimi anni, a vantaggio delle sonorità più estreme. Aspettiamo di rivedere i Brain Dead in un concerto interamente loro, visto che salire per primi sul palco, specie in tali circostanze, non è certo facile.

Dopo alcuni minuti di attesa per il cambio di palco, appaiono gli Stormlord, che non hanno bisogno di molte presentazioni. Tra i brani ci colpisce “Legacy of the Snake”, in cui spicca l’efficace uso di effetti e campionamenti interessanti; segue un pezzo ispirato all’Inferno di Dante, “And the Wind Shall Scream My Name”, dedicato all’eroico Ulisse, mentre la chiusura è per “Mare Nostrum”, che tratta delle storiche guerre dell’Impero Romano contro i Cartaginesi. Mentre assistiamo all’ottima prestazione della band, non possiamo fare a meno di pensare che sia un peccato che un gruppo di tale levatura suoni addirittura prima di pranzo; se fossero stati inseriti nella scaletta della prima giornata, gli Stormlord avrebbero avuto più tempo ed i presenti avrebbero apprezzato le atmosfere gotiche ed epiche create dalle tastiere in un orario più consono, anziché sotto un sole cocente.

Tocca quindi ai Between the Buried and Me, formazione death metal, che organizza frequenti incursioni nel campo dell’hardcore, ma anche capace di inaspettate aperture melodiche; assolutamente incuranti dell’immagine scenica, impostano la loro esibizione interamente sull’impatto, interrotto in alcuni momenti da qualche tecnicismo e dall’utilizzo delle clean vocals. A lungo andare, comunque, risultano un po’ noiosi, visto che suonano un po’ di più rispetto agli Stormlord, che avrebbero decisamente meritato miglior sorte.

Si passa così ai Dillinger Escape Plan: piuttosto osannati dalla critica e da molti appassionati, si esibiscono in un hardcore trascinante, anche se, a volte, il suono appare piuttosto ripetitivo. Qualche passaggio più tecnico ci mostra il lato meno furioso della band, che sul palco dà tutto, con una prestazione travolgente, all’insegna dell’energia e del divertimento, gradita dalle prime file, anche se ai metallari propriamente detti rimane senz’altro ancora un po’ di amaro in bocca.

Gli At the Gates salgono sul palco per la prima volta dopo lo scioglimento, avvenuto oltre dieci anni fa, ma è come se il tempo non fosse trascorso. Un’intro apocalittica lascia presto il passo a “Slaughter of the Soul”; citiamo anche altre canzoni, come “Terminal Spirit Disease”, “Raped by the Light of Christ”, “Under a Serpent Sun” e “Kingdom Gone”, fino alla conclusiva “Blinded by Fear”. Una eccellente prestazione, quella degli svedesi, coinvolgente ed accattivante: death melodico di grande intensità, dal perfetto equilibrio tra passaggi lenti e repentine accelerazioni, con stacchi precisi che fanno la gioia di chi, per tanti anni, ha atteso il ritorno di un gruppo considerato, non a torto, tra i padri fondatori del settore in questione.

E’ ancora alto il sole, coperto episodicamente da una nuvola, che presto sparisce tra le maledizioni degli spettatori, quando appaiono i leggendari Testament, accompagnati dall’intro di “Eerie Inhabitants”. Tra gli altri brani ricordiamo una massacrante “Into the Pit”, degna dei tempi migliori, seguita da “Apocalyptic City”. Chuck Billy appare abbastanza in forma: non è certo obbligatorio, dato il tumore che gli ha tolto tante energie, ma l’uomo, evidentemente, ha la corteccia di una sequoia ed offre una prestazione dignitosa, passando da alcune esasperazioni growl, residuo del periodo della poco gradita svolta death, a certi scream degni dei bei tempi, anche se usufruisce di qualche aiutino, derivante dal microfono effettato. Alex Skolnick, invece, si lancia in assoli precisi, meravigliosi, a testimonianza perenne che saper suonare è il primo requisito che si richiede ad ogni musicista che abbia la pretesa di definirsi “metal”, visto che non basta strapazzare un po’ gli strumenti, come molti credono oggi per ignoranza o malafede, nostro malgrado.
Tra una notevole “Practice What You Preach” ed una travolgente “The New Order”, i Testament giungono a “More than Meets the Eye”, tratta dall’ultimo album. Ricordiamo anche “The Preacher”, seguita da “Alone in the Dark”, arricchita da una notevole partecipazione degli spettatori dal punto di vista dei cori; infine, la chiusura è affidata all’immensa “Disciples of the Watch”, in cui Chuck Billy, tramite il comando “Obey!” del ritornello, fa tremare l’Arena. Alla fine, spazio per la presentazione dei musicisti, tra cui Eric Peterson, Greg Christian e Paul Bostaph, tutti ineccepibili, pur non avendo avuto molto spazio a disposizione per esibizioni personali. Si alza la giusta ovazione per un gruppo che dimostra di essere ancora in forma notevole e di aver molto da insegnare a tanti, anche se qualche scriteriato ha storto il naso durante l’esibizione, in attesa dei gruppi death: è normale e giusto che esista varietà di gusti, ma, anziché far notare il proprio dissenso davanti ad una formazione delle dimensioni dei Testament, ci sarebbe sembrato più opportuno andare a guardarsi le bancarelle in modo discreto, in attesa della fine di ciò che, per i tipi in questione, è stato uno strazio o una ninna nanna, mentre a chi scrive (e non solo, visto che l’entità dei partecipanti all’applauso parlava chiaro e sovrastava il numero esiguo di scontenti) ha lasciato molto più di una emozione.

Mentre ancora riflettiamo sull’esibizione dei Testament, si passa ai Meshuggah: anche loro molto attesi, riversano elettricità sul pubblico con una prestazione aggressiva, intensa, in certi istanti anche deflagrante, grazie a brani come “Bleed”, “Rational Gaze” e “Future Breed Machine”. A tratti ipnotici, altre volte freddi e troppo cerebrali, come da loro tradizione, i Meshuggah sono il tipico gruppo da amare o da odiare: noi cerchiamo di tenerci in una via di mezzo, dicendo che in un festival una band del genere, pur tecnicamente valida, non è così immediata da soddisfare tutti, risultando poco coinvolgente e più arida rispetto a quanto appaia su disco.

Anche i britannici Carcass sono molto attesi, visto che tornano sulle scene dopo lunga assenza. I musicisti vengono accompagnati sul palco da una lunga intro riguardante la religione; tra i pezzi ricordiamo “No Love Lost”, “Symphony of Sickness”, “Rotten to the Gore” e Death Certificate”. Molto precisi nella loro spietata aggressività, i Carcass variano un suono altrimenti monocorde con validi passaggi tecnici, posizionati nel modo opportuno: un gruppo molto professionale, che, senza troppe chiacchiere, in questi casi superflue, giunge subito al sodo, martellando i presenti, che rispondono con applausi sinceri.

Tutto è pronto per l’arrivo degli Slayer: finalmente il sole è calato e si respira un po’, visto che il gruppo merita tutte le nostre energie, come, del resto, anche gli altri prima di loro. Non c’è spazio per molti convenevoli, dato che gli Slayer iniziano subito a far sanguinare gli strumenti con canzoni che hanno fatto la storia quali “War Ensemble”, “Spirit in Black”, “Hell Awaits”, “Die by the Sword”, “Ghosts of War”, “Disciple” e “Postmortem”. Dopo il rientro dietro le quinte, acclamatissimi, gli Slayer rientrano per concedere altri brani al fulmicotone, come del resto hanno fatto durante tutto il concerto: la ferocia di “South of Heaven”, “Raining Blood”, “Mandatory Suicide” e della conclusiva “Angel of Death” non lasciano scampo al malcapitato headbanger, che si ritrova a fine spettacolo con il collo distrutto, ma soddisfatto per la buona prova fornita dai propri beniamini.
Qualche pausa ogni tanto, tra un pezzo e l’altro, ha fatto lagnare gli ipercritici, ma a noi sembra normale, considerando che i brani sono stati eseguiti in modo veloce e preciso, non certo approssimativo; piuttosto, data l’età dei componenti, è incredibile la violenza sprigionata dalla band, che non ha perso un colpo, anzi, se possibile, ha accelerato alcune canzoni rispetto alla versione in studio, rendendole semplicemente disumane. A pensarci bene, però, disumane non sono, dato che le abbiamo ascoltate realmente, non certo in sogno; solo gli Slayer, infatti, possono unire la pulizia di esecuzione alla violenza con cui eseguono i brani ed il risultato sono i capolavori che ci hanno donato in oltre vent’anni di carriera. L’unica critica che si può muovere, a voler essere pignoli, è un po’ di monotonia in certi momenti, in cui il treno in folle corsa avrebbe avuto la necessità di rallentare. Prima di essere maledetti dai fan più sfegatati del gruppo per il nostro oltraggio alle divinità, aggiungiamo pure che, in fondo, ciò che ci si attende dagli Slayer è proprio il massacro senza fiato ed il compito è stato eseguito in modo esemplare da Tom Araya, Kerry King, Jeff Hanneman e Dave Lombardo: tutti straordinari nell’uso dei rispettivi strumenti, violentati oltre ogni limite per la felicità del pubblico, stimabile, presumibilmente, intorno alle quindicimila unità.

 


Data: 28/06/2008
Luogo: Bologna - Arena Parco Nord
Genere: Heavy Metal

 

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