Mike Portnoy non trova pace.
Ex Dream Theater, ex Liquid Tension Experiment, ex Osi, ex Adrenaline Mob, attualmente Winery Dogs, Transatlantic, Flying Colors, Neal Morse Band, senza contare le collaborazioni volanti con gli Avenged Sevenfold o con Sheehan, MacAlpine e Sherinian nel Live In Tokyo... e la lista sarebbe ancora più lunga. Quanta grazia. Forse troppa. A guardare bene però a forza di rimescolare, qualche nome si ripete. In ogni caso, si è ora lanciato in questa nuova estemporanea, forse sì o forse no, avventura con questa nuova formazione, anzi con questo nuovo “supergruppo” (appellativo fastidiosissimo che io cancellerei dal vocabolario musicale ma che, ahimè, a molti piace). I nomi sono tutti altisonanti, a partire dallo stesso Portnoy e continuando con Jeff Scott Soto, Derek Sherinian, Billy Sheehan e Ron Thal. Un album e una formazione fatta di nomi e per lo più solo di quelli. La sostanza non è da buttare ma, a mio avviso, poco interessante. Dal punto di vista tecnico i cinque fenomeni fanno il loro dovere con professionalità, ma per il resto l’incisione sa di stantio. Ognuno di loro ha rovistato e e rimacinato qualcosa dal proprio bagaglio passato, recente e lontano. Lo stesso Portnoy ha “indirizzato”, in più di un brano, qualche passaggio, non solo proprio, verso reminiscenze dreamtheateriane, oltre ad eccedere come suo solito negli onnipresenti martellamenti a raffica sui tom. Sherinian ha altrettanto forzatamente calcato la mano su quelle sonorità a lui care nel periodo con la band newyorkese. Soto, con la sua virile e maschia tonalità, ha cantato sì bene, ma spesso con melodie poco coinvolgenti. Sheehan ha fatto il suo sporco lavoro sebbene in maniera anonima per quasi tutto l’album, tranne che nell’ultima traccia dove si è profuso in un bell’assolo nella sua tipica e rude sonorità. Per finire Ron Thal che ha messo la sua chitarra al servizio della condivisa pacchianeria d’insieme, regalando qualche bell’assolo e una serie di accompagnamenti ritmici troppo simili a passaggi già noti nella ambiente metal prog e soprattutto ai suoi colleghi d’avventura. Probabilmente la traccia più interessante e accattivante è quella strumentale di chiusura dell’album e qualche sorriso la possono strappare “Figaro’s Whore” e “Divine Addiction”, di chiara ispirazione Deep Purple, dove un arrembante Sherinian omaggia il compianto Jon Lord dei tempi andati. Il disco è sicuramente gradevole, ma altrettanto sicuramente molto poco interessante. Un metal moderatamente prog, aggressivo e melodico al tempo stesso ma non innovativo, e comunque, senza pretendere spasmodicamente innovazione ad ogni costo, composto quasi esclusivamente da passaggi rimacinati troppo palesemente dalle precedenti esperienze dei quattro super-artisti coinvolti. Nutro seri dubbi che questa incisione possa lasciare il segno nella memoria del metal moderno, se non a titolo di cronaca negli annali. |
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