Ho già convintamente asserito, recensendo un'altra sua opera discografica, che Neil Young si piega a leggi matematiche ben precise: per un disco molto bello, egli ne pubblica una manciata di livello appena sufficiente e almeno uno, se non due, di tenore scarsissimo (fatta eccezione per i live, invece, che sono invece tutti generalmente apprezzabili). Orbene, con questo 38° album, è il momento del plauso, pur con contenute riserve. Accompagnato dal batterista Jim Keltner (noto per la sua attività al servizio, tra gli altri, di Bob Dylan, Ry Cooder e dei Traveling Wilburys) e dal (pressoché sconosciuto) bassista Paul Bushnell, il canadese confeziona un disco che - a parte la breve incursione nella compagine angosciosa tratteggiata nel primo brano dai feedback di chitarra e dal lancinante stridio dei suoi assoli rugginosi - è meravigliosamente impregnato di suggestioni folk e magnetismi acustici che richiamano il meglio della produzione di genere dell'artista. Questo vale anche quando egli naviga nell'ordinario, come in "Show Me", un giro blues piuttosto scontato che però viene sublimato da ascendenze harvestiane di fascino irresistibile. Percorrendo invece l'inusuale, è certamente apprezzabile la doppia stratificazione vocale in "My Pledge", ove, al suo conosciuto timbro, egli sovrappone con garbo una linea cantata con voce artefatta. E anche quando si concede una sortita nel divertissement allegrotto, con lo stornello "Texas Rangers", il nostro trova il coraggio di scioccare l'ascoltatore irrompendo con un'armonica talmente deflagrante e violenta, da fare risultare evidenti le sue apprezzabili finalità anticommerciali, antipopuliste, anticlassifica. Non tutto è perfetto e due sono almeno gli appunti: la citata armonica diventa purtroppo stuprante in "Can’t Stop Workin’", "Indian Givers", "Terrorist Suicide Hang Gliders" e "John Oaks". Questi brani sarebbero stati senz'altro collocati nel gotha del repertorio younghiano, qualora sublimati da un'armonica giusta, delicata e mai invasiva che, purtroppo, si ascolta soltanto in "Glass Accident" e in "My New Robot". Tuttavia - e siamo alla seconda critica - l'ultimo dei due è purtroppo rovinato dall'uso dell'odiato vocoder (che sta alla musica di Neil Young come, in misura inversamente proporzionale, la voce di Kate Bush starebbe ad un gruppo thrash). In tal senso, la malcelata intenzione dell'artista di sbigottire ad ogni costo appare fortemente criticabile. |
Neil Young: chitarra, voce Anno: 2016 |