Nella sua biografia, “No Regrets” (“Senza Rimorsi”, qui recensita), Ace Frehley aveva raccontato della sua folgorazione per il rock and roll, per i Beatles e per gli Stones e con questo disco vuole esprimere il suo amore e la sua gratitudine nei confronti degli artisti che lo hanno ispirato e lo hanno formato come musicista. “Townshend, Page, Clapton, Hendrix: ho avuto i maestri migliori al mondo. Ripeto spesso che non ho mai preso lezioni di chitarra, ma non è del tutto vero. Ho preso lezioni dai più grandi. È studiando il loro lavoro e provando a imitarli che sono diventato il chitarrista che sono.”. È su queste premesse che si fonda la scelta dei pezzi contenuti in Origins Vol.1 e così l’album si apre con “White Room” dei Cream (nel 1967 Ace era al teatro RKO di Manhattan ad assistere alla prima esibizione negli Stati Uniti della band di Clapton e degli Who) a cui fa seguito “Spanish Castle Magic” di Jimi Hendrix. Ad Hendrix, infatti, sono legati alcuni aneddoti dell’adolescenza del futuro Spaceman: quando Ace frequentava la Roosvelt High School entrava a scuola con una copia di Are you experienced? sotto il braccio e, addirittura, nell’estate 1970, grazie al suo look da rocker, il giovanotto riuscì ad accedere al backstage del ‘New York Pop Festival’ sulla Randall Island dove si ritrovò a montare la batteria di Mitch Mitchell, in quella occasione arrivò a pochi passi dal mitico Jimi, e così (con il suo solito humour) commentava quell’episodio: “Vedere Hendrix dal vivo era un po’ come per un cattolico incontrare il papa in persona”. Restando in tema di ricordi, vale la pena di raccontare anche il legame con gli Steppenwolf, qui omaggiati con “Magic Carpet Ride”: durante il ‘Festival for the peace’ del 6 agosto 1970 (presenti anche Janis Joplin e Johnny Winters) Ace (nuovamente infiltratosi nel retro palco) cominciò a cambiare le corde per la chitarra di John Kay: “Mentre sistemavo con attenzione le corde, concentratissimo sul mio compito, sentii la porta aprirsi. Entrò John Kay in persona. Cercai di restare tranquillo. (…) Quel che è peggio è che mentre mi osservava mettergli le corde alla chitarra avevo l’impressione che ci fosse una qualche critica inespressa nei suoi occhi, e temevo che da un momento all’altro mi avrebbe sbugiardato come impostore. Mi aspettavo che saltasse su a dire qualcosa tipo “che cazzo crede di fare quel tizio?”. Ma non lo fece. Anzi, si sedette accanto a me, si presentò e sollevò tranquillamente il pacco di corde. “Vuoi finire tu?”, chiesi nervosamente. Scosse la testa. “No va bene. Stai facendo un buon lavoro. Continua pure”. Non ci crederete mai, ma John cominciò ad allungarmi le corde. Lui le faceva passare attraverso il ponte e io le fissavo alle meccaniche. Per pochi minuti io e il fondatore degli Steppenwolf siamo stati “soci”: legati dal nostro amore per la chitarra, il nostro rispetto e la nostra attenzione per lo strumento”. Scorrendo la tracklist troviamo una marea di band inglesi (Free, Led Zeppelin, Kinks, The Troggs) e questo la dice lunga su quanto il rock britannico abbia influenzato quello americano. Spettacolare ed energica è la versione di “Bring It On Home” degli Zeppelin, nella quale viene fuori in modo inaspettato tutta l’anima blues del nostro. L’operazione non è comunque commerciale perché la scelta non si è concentrata sui brani di punta delle band onorate, infatti qui non troviamo pezzi arcinoti come “Satisfaction”, “Hey Joe”, “All right now”, “Boys are back in town”, “Whola lotta love” oppure “Born to be wild” e questo conferma che si tratta di un atto di amore sincero e appassionato. Non poteva, però, mancare un richiamo alla storia dei Kiss, dal cui repertorio Ace pesca tre brani, due scritti da lui, “Cold Gin” e “Parasite”, ed uno, “Rock and Roll Hell”, estratto da Creatures of the night (disco sulla cui copertina Ace è raffigurato, ma sul quale non suona neanche una nota). La sua versione è, forse, migliore di quella originale cantata da Simmons e qui possiamo sentire quale sarebbe stato il suo assolo se nel 1982 al suo posto non avesse suonato (come artista non accreditato) Robben Ford. La bellezza di questo lavoro risiede anche nel fatto che il chitarrista del Bronx è riuscito a coinvolgere tanti ospiti: in “Emerald” (Thin Lizzy) il padrone di casa intreccia i suoi assoli con quelli di Slash e il brano è magnifico perché sprigiona tutto il sapore dell’Irlanda di Phil Lynott; in “Wild Thing” al microfono si affaccia Lita Ford (il pezzo, classico del 1966 dei The Troggs, presenta delle assonanze con “Vicious” – del 1972 – di Lou Reed e con "Smells like teen spirit" – del 1991 – dei Nirvana). Altre due guest star accompagnano Ace, John 5 (già con Marilyn Manson e Rob Zombie e autore, in un suo album solista, di una cover fedelissima del classico frehleyano “Fractured Mirror”) e Mike McCready dei Pearl Jam. La presenza di questi ultimi, oltre al già citato Slash, testimonia l’importanza e l’affetto che le nuove (o quasi) leve di chitarristi americani nutrono nei confronti di Ace Frehley, che, come detto dal sottoscritto in altra sede, non sarà il chitarrista più tecnico del mondo, ma certamente è uno dei più influenti. Ancora alcune cosette da aggiungere:
Ace sfoga tutta la sua voglia di suonare, quasi a voler recuperare gli anni persi tra i fumi dell’alcool, lasciandosi andare in una prestazione liberatoria, generosa, istintiva e viscerale, confermandosi interprete di gran gusto e sfoderando tutto il suo bagaglio di scale, legati, licks, scatti e note tirate allo spasimo, utilizzando, insomma, il suo stile riconoscibilissimo. Ace loves Rock! We love Ace!
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Ace Frehley: Voce e chitarre Anno: 2016 |