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Jack White
Blunderbuss

Nel panorama musicale mainstream – tale la collocazione dell’artista in questione – John Gillis, alias Jack White è senz’altro un nome d’eccellenza. Uno dei pochissimi artisti pubblicizzati le cui uscite discografiche, per un motivo o per l’altro, valgano la pena di essere seguite. Dal blues-rock-quasi-punk dei White Stripes, alla compiacenza dei Dead Weather, passando per le sberle sonore dei Raconteurs, progetto in cui, più che in ogni altro, viene riversato tutto il talento poliedrico di questo “genio” (vedasi “Consolers Of The Lonely”), il sound di questo artista, mutuato da John Spencer Blues Explosion è stato ascoltato e riascoltato in mille salse, diventando un marchio di fabbrica, pressochè inconfondibile: trattare di questo disco come di un debutto è di fatto impossibile. Eppure tanto (tredici anni, a partire dall’album d’ersordio dei White Stripes, praticamente tutti trascorsi sulla scena, animato dalla spasmodica prolificità autoalimentante che lo caratterizza) ha voluto aspettare il signorino polistrumentista di Detroit, prima di metterci il suo nome.

Due sono le possibilità: o questo è il disco della maturità, e come tale sarà probabilmente salutato dal pubblico, un capolavoro moderno, un nuovo classico; oppure esso costituisce la grandiosa trovata pubblicitaria di un personaggio (o un interprete) di cui, bene o male, da una decina d’anni si è sempre parlato , bene e male. Uno che forse, nella musica di superfice, s’intende, si sta coinquistando il titolo di rock-star simbolo di questa epoca. Uno che però forse questo titolo se lo sta conquistando anche con mezzi non sempre del tutto ortodossi. Come ad esempio, forse, questo album. Insomma, poco più che un grosso carro al seguito dell’altrettanto grosso nome (e conseguente scalpore) che lo precede. Ci si lava via un bel po’ di fango del sound sporco tipico di tutta la discografia precedente, cadono le zanne, ci si pettina i capelli per nascondere le corna. Il risultato è un buon disco, pulito, che scivola via senza lasciare pruriti. Il titolo del brano d’apertura, “Missing Pieces”, è didascalico: di fatti, in un brano che promette bene, ricalcando sentieri attraversati sia in “Door Bell” dei White Stripes sia in “Rich Kid Blues” dei Raconteurs, c’è qualcosa che non c’è, è assente. Manca di nerbo.
Per tutta la prima metà dell’album si ha l’impressione di assistere ad un cabaret imbastito da White che recita la parodia di sé stesso, vecchi costrutti a strisce bianche (“Sixteen Saltines”) e pretenziosi accenni country (“Love Interruption”), con risultati mediocri. Nessun cuore pulsante sotto le batterie e le chitarre, nessun fascino diabolico, semplici melodie e arrangiamenti che, per l’appunto, si lasciano semplicemente ascoltare, scivolando via, e resta il nulla.

Si perdono quasi le speranze quando, d’improvviso, accade l’insperato: l’insieme di suoni prende forma, cessa di essere tentativo; nella sognante ed evocativa title-track un pianoforte, una chitarra ed un flauto svelano il lato agrodolce di Gillis come una fucilata di fiori (con solo tre o quattro colpi di batteria!), e i due brani successivi creano, stavolta sì, nuove (quasi) atmosfere sonore che ipnotizzano grazie ad arpeggi e trilli di pianoforte su cui il signorino polistrumentista non aveva mai insistito, neppure nelle più ardite composizioni dei tempi Raconteurs. I ritmi, le fusioni di corde e tasti, tutto quanto: si pesta, si canta a squarciagola, si scuote la testa (e i capelli lasciano di nuovo intravedere le corna). “Hypocritical Kiss” e “Weep Themselves To Sleep”, rispettivamente lato luminoso ed oscuro di una nuova attitudine, o di una vecchia che si serve di nuove forme, costituiscono l’apice di “Blunderbuss”, e inaugurano la seconda metà dell’album, un vero e proprio trionfo di tastiere che rincorrono, corteggiano e duellano con le solite chitarre che contraddistinguono le sonorità di White.

Trash Tongue Talker” è uno dei pezzi più divertenti del disco, l’anima blues di Detroit si fa sentire, forte e chiaro, come nel resto dei brani che portano alla finale “Take Me With You When You Go” la cui l’iniziale melodia comica da vaudeville in tre quarti esplode nell’unico vero tributo ai White Stripes, con chitarre cattive abbastanza da strappare un sorriso alla fine dell’ascolto dell’album.
Jack White le zanne potrebbe averle perse davvero, ma forse erano solo denti da latte. E andrebbe benissimo, se in questo album non fossero contenute le prime quattro canzoni, che lo deturpano e gli impediscono di essere un lavoro completo, all’altezza del nome che porta. Ma chissà quanto se ne parlerebbe se quel nome non fosse il suo.

70/100


Jack White: Voce, Chitarra, Basso, Pianoforte, Batteria

Entourage:
Bryn Davies, Joey Glynn, Jack Lawrence, Carla Azar, Olivia Jean, Daru Jones, Patrick Keeler, Ruby Amanfu, Karen Elson, Laura Matula, Ryan Koenig, Brooke Waggoner, Fats Kaplin, Lillie MaeRische, Emily Bowland, Jake Orrall, Adam Hoskins, Pokey LaFarge

Anno: 2012
Label: Third Man Records
Genere: Blues Rock/Alternative Rock

Tracklist:
01. Missing Pieces
02. Sixteen Saltines
03. Freedom at 21
04. Love Interruption
05. Blunderbuss
06. Hypocritical Kiss
07. Weep Themselves to Sleep
08. I'm Shakin'
09. Trash Tongue Talker
10. Hip (Eponymous) Poor Boy
11. I Guess I Should Go to Sleep
12. On and On and On
13. Take Me with You When You Go

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