Ammetto che, per gli amanti del prog, la nuova direzione intrapresa dei Giant The Vine, in parte protesa verso il post rock, potrebbe esercitare un fascino piuttosto contenuto. In "Music for Empty Places", loro precedente prova discografica, erano palesemente omaggiate le riflessioni sonore dei Porcupine Tree, specie quelli più malinconici e intimistici, mentre in questo nuovo lavoro analoghe atmosfere sembrano richiamare i Radiohead più introspettivi e i Talk Talk a cavallo tra '80 e '90. Si tratta di ascendenze di analoga qualità, pur caratterizzate da differente estrazione culturale. Ci sono poi alcune riserve da esprimere in ordine agli arrangiamenti. In tal senso, almeno la prima parte del cd è connotata da splendide melodie di partenza che, a modesto avviso di chi scrive, non paiono evolversi a dovere: a titolo di esempio, le efficaci soluzioni megnetiche e visionarie di “Glass” e “The Potter’s Field”, vengono ripetute se non ad libitum, quantomeno con una certa granitica insistenza che alla fine quasi stanca, con l'aggravante di una batteria che ricerca soluzioni complesse spesso non perfettamente adeguate. Eppure, il trittico finale pare riportare le cose in linea con la tradizione progressiva, segnatamente a vocazione crimsoniana: si parla delle dure macchinazioni di “The Heresiarch”, le cupe derivazioni destrutturate di “The Inner Circle”, le oniriche suggestioni di "A Chair At The Backdoor", brano, quest'ultimo, splendidamente dilatato a 12 minuti ed oltre, come vuole la antica tradizione. I primi due valgono da soli l'acquisto dell'opera in questione. Concludendo, al di là dei gusti personali, questo album non segna soltanto un ritorno di una band che all'epoca (2020) ci aveva letteralmente stupiti, ma testimonia anche il coraggio dei musicisti di cambiare direzione senza tradire il proprio background, anzi cercando di sublimarlo con caparbia determinazione, in alcuni casi centrando in toto l'obiettivo. |
Antonio Lo Piparo / bass Anno: 2023 |