Ci sono dischi, tra i capolavori riconosciuti della musica moderna, che hanno espresso la loro magniloquenza su un minutaggio vastissimo.
Viene da pensare a London Callling dei Clash, oppure sempre al loro Sandanista (4 vinili), potremmo anche citare The Wall dei Pink Floyd, ma la lista impegnerebbe qualche altra riga di questa recensione. Ci sono poi dischi che hanno lasciato un segno indelebile nonostante la scarsa durata, rendendo l'arte della sintesi sublime pretesto per confezionare una delle prove Hard Rock (in questo caso) più ispirate e monolitiche che si siano mai sentite. Ne è esempio palese Rising dei Rainbow, 34 minuti scarsi di incandescente, fantasy, epico e candenzato (all'occasione) rock suonato da una delle migliori formazioni che la scena abbia mai avuto. Ma andiamo per ordine. Corre l'anno 1974 quando un capriccioso Ritchie Blackmore decide di lasciare per motivi artistici i Deep Purple all'apice del loro successo commerciale per fondare un progetto proprio, cercando supporto in un altro soggetto che col passare degli anni, si dimostrerà ancora più controverso ed ingestibile: Ronnie James Dio alla voce. Da questa base nasce nel 1975 il full lenght Ritchie Blackmore's Rainbow, che grazie al riff spacca montagne di "Man On The Silver Mountain" proietta da subito la band nell'olimpo della musica dura britannica. Nonostante sia riconosciuto universalmente come un capolavoro, Blackmore non è soddisfatto della prova dei propri musicisti e licenzia tutti, tranne che il folletto Dio. Riorganizzata la line up intorno a Cozy Powell (batteria), Jimmy Bain (basso) e Tony Carey (tastiere), l'anno successivo prende quindi vita l'atto secondo dell'arcobaleno, concretizzato intorno a soltanto 6 tracce per appunto l'esigua durata di 33 minuti e 28 secondi (per gli amanti della precisione). L'opener "Tarot Woman", introdotta da un tocco di tastiere barocco anticipa l'epica sezione ritmica dove fa da cicerone lo splendido cantato di Dio; la più breve "Run With The Wolf" fa emergere nella chitarra una linea più Blues e melodica, mentre la successiva e ritmata "Starstruck" è debitrice del purple sound, ma nel ritornello esplode tutta la classe compositiva della band, sotto cascate di terzine di Powell e sotto il basso martellante ed ossessivo di Bain. Terminata la prima parte, nella seconda si mostra il fianco (non di certo dal punto di vista del songwriting) con la più catchy "Do You Close Your Eyes", con un riff incisivo in apertura e con un contagioso e radiofonico refrain. Non che sia un brutto brano anzi, risulta a posteriori come perfetto specchietto per le allodole, ma forse in un clima di perfetta maestosità anche dopo tutti questi anni risulta indubbiamente stonata nel contesto. A mettere le cose apposto da questo punto di vista ci pensa allora "Stargazer", quasi 9 minuti imprescindibili dove l'inlfuenza kashmiriana della sei corde di Blackmore (poi riciclata dal “man in black” per "Perfect Stranger") stende un tappeto perfetto per una prestazione vocale di Dio immensa, che culmina in un ritornello magnifico supportato anche dalle ampie aperture di tastiere. Nota a parte merita il testo: qui si parla di un mago che impone al proprio popolo la costruzione di una torre di pietra per farlo volare e portare tutti verso un altro (migliore) mondo. Finita la costruzione il mago arriva in vetta alla torre e prova a volare, ma non ci riesce e schianta al suolo. Punto di riferimento per la propria popolazione, quest’ultimo si demoralizza e si lascia andare ad un laconico: Now Where Do We Go? L'album si conclude con la cavalcata "A Light In The Black" arricchita dalla doppia casa della batteria che rende il suono pieno e preciso, ma dove l'apice viene raggiunto dai duellanti Blackmore e Carey, che si scambiano bellissimi intrecci di chitarra\tastiera lasciando a bocca aperta anche l'ascoltatore più scettico. Chiosando Rising, a distanza di più di 30 anni si dimostra come una fotografia musicale non sbiadita dal tempo che passa, anzi, alimenta il mito Hard Rock nei solchi dei suoi pezzi, nella perizia tecnica dei suoi musicisti, producendo una delle prestazioni più passionali ed intense che la scena pre-Heavy abbia mai immortalato. Chapeaux! |
Ronnie James Dio: Voce Anno: 1976 Sul web: |