Nel commentare il ritorno in sala di incisione di una band storica c'è sempre la velata soddisfazione per chi scrive, e la recondita speranza per chi legge, nel poter esprimere senza remore un giudizio positivo sul nuovo lavoro pubblicato e magari atteso da anni.
La gratificazione di cui sopra cresce poi esponenzialmente tanto più, quanto più alta è la percentuale di componenti originari ancora facenti parte della formazione in essere. In questo caso si tratta dei Kansas, band statunitense, che riuscì a distinguersi negli anni '70 per una serie di incisioni di notevole spessore, il cui ritorno sul mercato con un nuovo lavoro in studio dopo sedici anni di altalenante silenzio, interrotto solo da alcune incisioni dal vivo, desta sicuramente notevole attenzione. L'unica nota dolente di questo benaugurato ritorno è dovuta al fatto che solo due componenti tra quelli che hanno reso famoso il nome della band, fanno ora parte della attuale formazione. Di coloro ai quali si devono album come Kansas, Song for America, Masque, Leftoverture, Point of no return, sono attualmente in forze solo il batterista Phil Ehart e il chitarrista Richard Williams, mentre mancano all'appello Dave Hope, Kerry Livgren, Robby Steinhardt e Steve Walsh. Fatto sta che il solo nome della band suscita interesse e tanto basta a solleticare la curiosità dei musicofili di nuova e vecchia data. I Kansas, nel loro periodo d'oro che va dal 1973 al 1980, si sono sempre distinti per il loro rock melodico velatamente prog, molto raffinato ed intelligente, che gli ha permesso di avvicinare un pubblico molto vasto, riuscendo ad accontentare gli amanti di una musica più articolata ed allo stesso tempo coloro i quali prediligono melodie più immediate. In questo nuovo The prelude implicit, va riconosciuto ad onor del vero il riuscito tentativo di perpetrare la suddetta tradizione stilistica, attualizzando il tutto con sonorità più moderne senza però snaturare quello che era il sound genuino della band. Siamo di fronte ad un ottimo album rock nella migliore tradizione Kansas: melodie orecchiabili e strutture che in alcuni casi, e solo in alcuni, rasentano il prog leggero. Chiaramente non sono presenti i vigorosi virtuosismi concessi da Steve Morse nella fuggente comparsa dell'album Power del 1986, ma comunque si tratta di un'ottima prova di maturazione artistica e di professionalità, degna di far sfigurare tante moderne e discutibili incisioni AOR. Nel complesso quindi un album tutto da godere per una ritrovata band che, a fronte di un organico tanto mutevole, riesce comunque a conservare quasi invariato il proprio marchio di fabbrica. |
Phil Ehart: Drums, Percussion Anno: 2016
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