Doppia recensione
Recensione di Gianluca Livi Questo disco cancella in un soffio l'inconsistente “Heaven and Heart” (qui recensito), ultima, indegna opera discografica degli Yes senza Anderson (sostituito dallo stucchevole Joy Davison). Non basta: se questo album fosse uscito a nome Yes, lo dovremmo collocare, per bellezza e qualità espressiva, nella rosa dei primissimi album, certamente dopo "Fragile", "The Yes Album", "Close to The Edge", "Relayer", ma avanti a tutta la produzione post eighties (inclusi gli ottimi "Magnification", "90125" e i due volumi di "Keys To ascension", addirittura ex aequo con alcuni altri dischi della restante produzione settantiana. Quattro lunghi brani dal forte sapore yessiano, carichi di phatos intimista e di sontuose magniloquenze (che è, in sntesi, il binomio vincente degli Yes d'annata), con la voce di Anderson che scopriamo sorprendente anche nei registri bassi (imperdonabile errore, per gli Yes, cacciare un artista del calibro di Anderson) e la chitarra di Stolt che mai vuole emergere ma sempre primeggia, in forma pregevolmente intimista, anche quando, volutamente, talvolta emula lo Steve Howe dei tempi d'oro. Nessuna riserva, si esprime in questa sede, nei confronti di questo inaspettato passo vincente, capace di catapultare il duo nei posti alti della odierna compagine progressiva. Recensione di Valentino Butti Costretto a lasciare la sua creatura, gli Yes, qualche anno fa a seguito di gravi problemi di salute Jon Anderson non è rimasto inoperoso, collaborando nel frattempo con l’altro ex-Yes Rick Wakeman, con il violinista Jean Luc Ponty ed ora con il chitarrista (e “mente” dei Flower Kings) Roine Stolt. Il frutto di questa partnership (“benedetta” dalla Inside Out) è questo “Invention of knowledge” che non potrà che suscitare curiosità (almeno) tra i fan degli Yes recentemente colpiti dalla morte del bassista Chris Squire (giugno 2015) e dallo scialbo “Heaven & Earth” (2014). La musica creata da una siffatta collaborazione non poteva che essere un ibrido tra la magia della voce del singer e le trame sonore di Stolt e degli altri musicisti coinvolti (altri due Flower Kings, Jonas Reingold e Felix Lehrmann; Tom Brislin, già con gli Yes in “Magnification”, oltre a Lalle Larsson, Michael Stolt e, tra gli altri, Nad Sylvan e Daniel Gildenlöw ai cori). Suoni cristallini, una produzione accurata, il talento dei due protagonisti e tanto tanto “mestiere” ecco il risultato prodotto da “Invention of knowledge” composto da 4 lunghe tracce. I 23 minuti della title-track (divisa in tre sezioni distinte) apre l’album: la voce di Anderson ci prende subito per mano e ci conduce nel suo mondo immaginifico ben sostenuto dalla sensibilità di Stolt (che, non dimentichiamo, con il suo gruppo principale, i Flower Kings, ha assorbito più di qualche influenza dalla storica band inglese) e dei compagni d’avventura. Musica ariosa, cori eterei, intuizioni sinfoniche, profumi etnici (tanto cari all’Anderson solista), soluzioni acustiche e tutto quanto possa ricordarvi, se non la produzione storica targata anni ’70, quantomeno quella più che buona presente nei due capitoli “Keys to ascension” (che risalgono comunque a vent’anni fa), degli stessi Yes. Un inizio più che promettente quindi. “Knowing” (divisa in sole due parti, stavolta) è un tuffo nel passato e più precisamente allo “spirituale” “Tales from……”. Apprezzabili inserti di piano, qualche spunto di Stolt che conferisce lustro ulteriore alla voce di Anderson che (quantomeno in studio) non pare subire il trascorrere del tempo. Decisamente più soft e senza particolari guizzi la seconda parte (“Chase and harmony”) non troppo ispirata dal punto di vista melodico. E’ la volta poi di “Everybody heals” (divisa in tre segmenti). L’inizio è tutto appannaggio del cantante con sottofondo di chitarra e tastiere e melodicamente molto riuscito. Poi il brano, malgrado gli importanti inserti corali, qualche rilevante segmento strumentale che sfiora la fusion, perde decisamente di appeal melodico. La seconda sezione (“Better by far”) è una breve digressione acustica con la voce in evidenza, mentre la terza (“Golden light”) è più vibrante anche se difetta di quel quid portante che possa fare sobbalzare. Gli 11 minuti di “Know” chiudono l’album. Mistica e spirituale, dominata per buona parte da soffuse tastiere e dalla voce di Anderson, migliora nel finale, con interventi di rilievo di Stolt e Brislin, che riprendono la melodia portante di “Knowing”. Malgrado qualche inevitabile perplessità, il lavoro del duo estemporaneo è comunque soddisfacente e ci consegna un Anderson con ancora parecchio da offrire a livello compositivo. Howe e compagni, un pensierino a riportarlo in seno al gruppo madre lo dovrebbero senz'altro fare. I problemi on stage potrebbero, con una battuta, essere bypassati con un impiego part time: “Drama” e qualche brano più recente a Davison, il resto al buon Jon (che, per inciso, dubitiamo sarebbe d’accordo…) !!! Nel frattempo l’instancabile vocalist a breve sarà in tour con altri due vecchi sodali: Rick Wakeman e Trevor Rabin. Chissà se ne scaturirà anche un album in studio. E Roine Stolt? Anche lui, immaginiamo, non se ne starà inoperoso. Tra Transatlantic, Flower Kings e qualche concerto con Steve Hackett e, forse, qualche nuovo progetto, certamente sentiremo ben presto parlare anche di lui. |
Jon Anderson: lead & cori, synth, percussioni, co-producer Anno: 2016 |