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Deep Purple
To The Rising Sun... In Tokyo

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Scritto da Gianluca Livi Martedì 08 Settembre 2015 15:14


Disco gemello del contemporaneo "From The Setting Sun… In Wacken" che, pur attestandosi su analoghi livelli poco dignitosi, merita maggiore attenzione per l'esecuzione, certamente migliore, e per la scaletta, un tantino più ricca: a fronte dell'assenza di "Highway Star" vi sono sette brani della recente produzione, che è quella che vorremmo effettivamente sentir suonare da Morse e Airey. Inoltre, un Paice ancora in gran forma ci regala un ottimo assolo di batteria.

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Deep Purple
From The Setting Sun… In Wacken

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Scritto da Gianluca Livi Martedì 08 Settembre 2015 14:56

Ecco un altro trascurabile live dei Deep Purple, non più originali, non più mitici.

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Jimi Hendrix
Atlanta Pop Festival

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Scritto da Gianluca Livi Martedì 08 Settembre 2015 11:08

Se i fans avessero la possibilità di curare le note biografiche, le copertine, l'art-work in generale dei dischi dei loro amati beniamini, partorirebbero dei lavori decisamente più attendibili di quelli pubblicati dalle label.

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Jethro Tull
Live At The Carnegie Hall 1970

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Scritto da Gianluca Livi Domenica 06 Settembre 2015 18:40

Si tratta di un ottimo live che documenta il concerto tenuto dalla band alla Carnegie Hall di New York, il 4 novembre del 1970.
Questa è la prima edizione in vinile, pubblicata in occasione del Record Store Day.
In passato, questo live era stato edito in compact disc ed in DVD, inserito nel boxset "Stand Up Collector's Edition" nel 2010, sebbene quasi tutto il concerto, tranne due brani, fosse apparso già nel 1993, nel cofanetto "25th Anniversary Box Set".
I due brani esclusi (By Kind Permission Of e Dharma For One) erano invece stati pubblicati nell'antologia "Living in the Past" nel 1972.
Detto questo, si tratta di un gran disco: audio ottimo ed esecuzione molto buona.
La scaletta è già molto rappresentativa del percorso prog, nel periodo in cui ormai erano state abbandonate del tutto le sfumature blues del primo disco.
L'audio non è eccezionale ma è comunque ottimo, se si considera l'anno di registrazione. 

Formazione
Ian Anderson - voce, flauto traverso, chitarra acustica
Martin Barre - chitarra elettrica
John Evan - tastiere
Clive Bunker - batteria, percussioni
Glenn Cornick - basso

tracklist
Nothing Is Easy
My God
With You There To Help Me/By Kind Permission Of
A Song For Jeffrey
To Cry You A Song
Sossity, You're A Woman/Reasons For Waiting/Sossity, You're A Woman
Dharma For One
We Used To Know
Guitar Solo
For A Thousand Mothers



 

The Piano Rooms
Early Mornings

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Scritto da Gianluca Livi Domenica 06 Settembre 2015 18:22

Il nome di Francesco Gazzara è certamente noto in contesti più vicini all’acid jazz, ove ha operato con i Gazzara e gli Hammond Express, con i quali ha inciso la bellezza di 5 lavori (in One, il primo album, era presente James Taylor, mentre The spirit of summer ha venduto la ragguardevole cifra delle dieci mila copie). Nel primo lavoro solista, intitolato The Piano Room, egli abbracciava la causa eterea del suono minimalista al pianoforte, accompagnato di volta in volta da uno strumento diverso: sassofono, flauto, fagotto, corno inglese, contrabbasso, violoncello, organo, mellotron e hammond. Oggi, a distanza di poco meno di un anno, abiurata la formula delle collaborazioni esterne, l’artista romano riduce ad un trio la sua formazione, ribattezzata proprio con il titolo dell’esordio, e partorisce un album che, in linea con il recentissimo passato, evoca atmosfere pastorali, romantiche, intense, peraltro impreziosite da una vaga e soffusa influenza jazz. Ancora una volta, l’artista agisce in territori perfettamente compatibili con le ambientazioni fantasiose dello scenario progressivo, in particolare della compagine genesisiana tipica degli esordi (sono assai ricorrenti i fraseggi al pianoforte del primo Tony Banks) e della rarefatta visuale di Canterbury, di cui vengono evocate le ricorrenti atmosfere mistiche e contemplative in chiave squisitamente acustica. Una produzione italiana di ragguardevole valore artistico che conferma l’eterogeneità di un’artista polivalente ed eterogeneo, capace di perseguire (ed ottenere) pregevoli risultati in contesti variegati e apparentemente distanti tra loro. (Recensione apparsa sul n. 37, anno 2008, di “Musikbox - Rivista di cultura musicale e guida ragionata al collezionismo”, qui pubblicata per gentile concessione dell'autore).

Inserire il voto in centesimi, ad es: 70/100


 
 

Angelo Olivieri
Oidè

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Scritto da Gianluca Livi Domenica 06 Settembre 2015 18:18

Costituito da 9 musicisti attinti dalla scena romana, l’Oidé Ensemble nasce nel 2003, per volontà di Angelo Olivieri, compositore e trombettista eclettico, principalmente votato alla musica improvvisata e alla sperimentazione di genere. In quest’ultima fatica, egli offre sonorità policrome cha spaziano dalla ballad coltraniana (Come d’Autunno e Il Valzer di Elisa), alle forme modali e polimodali (Sunday Morning, Oidé e Butchin’), passando anche per risonanze di marcata e radicale improvvisazione (Prima di andare). Nei dodici brani, tutti composti da Olivieri, i musicisti si misurano in territori variegati, spesso anche in combinazioni esecutive contro tendenza per un ensemble del genere, come in Sencillo, brano in cui il suo autore non suona affatto, lasciando spazio solo alla voce e al pianoforte. Oidé è un disco dagli arrangiamenti ben congegnati a metà tra riferimenti al be-bop (l’influenza di Mingus è abbastanza evidente in Butchin’) e soluzioni intimiste e soffuse. Spesso, è anche un genuino esempio di improvvisazione collettiva, ove i musicisti sono votati alla ricerca di insieme, conseguita con tecnica ineccepibile, soprattutto per conto della sezioni ritmica (Roberto Bellatalla al contrabbasso e Marco Ariano alla batteria). Olivieri dal canto suo, pone in essere una leadership discreta, rispettosa, equilibrata: nel già citato Sencillo, ad esempio, il trombettista è completamente assente, ancorché unico autore del brano; in A casa di Alessandro, invece, egli interviene solo nell’epilogo, dimostrando grande gusto estetico e modestia di intenti. Eppure, pur possedendo suggerimenti attraenti, le finalità di alcune sue composizioni appaiano talvolta poco concrete, forse anche a causa della tendenza di tutti i musicisti a creare terreni rarefatti, sperimentazioni vocali, astrazioni utopiche (in tal senso sono rivelatori i lunghi brani Prima di Andare e The last nite). Tutto ciò si traduce, inevitabilmente, in un ascolto non sempre fluido, talvolta leggermente molesto, che rende l’opera non completamente (e facilmente) fruibile.

(Recensione apparsa sul n. 37, anno 2008, di “Musikbox - Rivista di cultura musicale e guida ragionata al collezionismo”, qui pubblicata per gentile concessione dell'autore).


 

Alessandro De Angelis/Angelo Olivieri
Nadir

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Scritto da Gianluca Livi Domenica 06 Settembre 2015 18:12

Nadir “è il frutto di studio e ricerca di un linguaggio nell’universo della musica improvvisata, che parte dal jazz ed arriva alla musica colta e popolare toccando la composizione che, quindi, si fa estemporanea e si concretizza nella ricerca della forma”. Trascritte nel libretto interno, queste parole spiegano la ratio musicale del progetto, una sorta di prodotto multicolore, perfettamente in bilico tra tradizione e musica contemporanea, proposto da una formazione che, coraggiosamente, vede impegnati solo due strumenti: il pianoforte di De Angelis (che occasionalmente suona anche il piano Rhodes) e la tromba di Olivieri. In realtà, la libera improvvisazione di cui si fa cenno poco sopra - e che caratterizza altri lavori del trombettista - è presente solo in due brani, Raimundo e Boppin’, ed è assente nel resto dell’opera, lasciando piuttosto spazio a sonorità di stampo squisitamente minimale, votate alla creazione di ambientazioni rarefatte e snebbiate, che divengono addirittura sussurrate quando De Angelis si dedica al piano Rhodes. Intimista, profonda, spirituale, l’opera è comunque alquanto screziata, attingendo da 4 diversi repertori: a fronte dei 7 brani originali (di questi, preme segnalare almeno The Stars And The Pilgrims, omaggio di Olivieri ad Enrico Rava, uno dei suoi punti di riferimento), altrettanti sono attinti dalla storia del jazz (Goodbye pork pie hat di Mingus e Turn out the stars di Evans), dalla musica classica contemporanea (Pictures of childhood e Round dance, rispettivamente di Aram Khachaturian e Béla Bartók) nonché, inaspettatamente, dalla tradizione popolare europea (Maremma e Raimundo, canto popolare toscano il primo, angolano il secondo).

(Recensione apparsa sul n. 37, anno 2008, di “Musikbox - Rivista di cultura musicale e guida ragionata al collezionismo”, qui pubblicata per gentile concessione dell'autore).

 


 
 

Iron Maiden
The Book Of Souls

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Scritto da Alessandro Splendori Domenica 06 Settembre 2015 11:38

Dopo cinque anni da The final frontier e la brutta disavventura di salute del frontman, i Maiden tornano con questo attesissimo album. Un doppio, data la lunghissima durata (oltre i 92').

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Portal Way
Portal Way

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Scritto da Gianluca Livi Sabato 05 Settembre 2015 21:24

Giovanissimi, romani, preparati, i Portal Way esordiscono con un lavoro che è completamente esente da critiche, tanto risulta credibile a livello esecutivo, compositivo e di produzione. Andiamo per gradi: il genere è prog metal; loro sono in quattro; la musica è interamente strumentale. A voler trovare delle influenze è impossibile non citare i Dream Theatre, sebbene siano certamente presenti anche tracce della migliore produzione barocca e magniloquente (quella con predominanza di tastiere che ha fatto la fortuna di gruppi come Elp e Yes), nonché riferimenti all’universo progressivo made in Italy, in particolare gobliniano (ed infatti, alcuni loro brani sarebbero perfetti in contesti cinematografici): Claudio Simonetti sembra essere della partita, soprattutto quando Igor Campitelli si misura con effetti che richiamano il suono dell’organo a canne (The first battle, In the cathedral). A livello ritmico, il chitarrista Andrea Sgrilla è anch’egli vicino alle sonorità del folletto: nell’economia del suono risulta essere parsimonioso, talché le risonanze dure e metalliche non risultano mai predominanti sulla tastiera, esattamente come faceva Massimo Morante venticinque anni fa (negli assolo, invece, ha altri e più moderni punti di riferimento). Completano l’organico il bassista Margo Angeli (in Quick as lighting si palesa con un refrain colmo di tensione emotiva) e Omar Campitelli, batterista talmente competente che potrebbe suonare al posto di Portnoy, non certo nei Dream Theatre, ma senz’altro in gruppi come i Transatlantic o nei lavori solistici di Neal Morse. Peccato che la veste grafica (copertina a parte) sia assai infantile e la durata dell’opera si attesti sui 33 minuti scarsi. La qualità di questo album è parzialmente confermata nella seconda opera discografica,  sempre valida ma di livello inferiore (qui la recensione di A&B).

(Recensione apparsa sul n. 37, anno 2008, di “Musikbox - Rivista di cultura musicale e guida ragionata al collezionismo”, qui pubblicata per gentile concessione dell'autore).


 
 

Ypsos
Oltremare

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Scritto da Gianluca Livi Sabato 05 Settembre 2015 21:20

C’erano una volta gli Indaco, fondati da Rodolfo Maltese e Mario Pio Mancini. Dopo una collaborazione pluridecennale, rotto il sodalizio in termini tutt’altro che amichevoli, Maltese resta alla guida degli Indaco, Mancini fonda gli Ypsos e pubblica quasi immediatamente Oltremare, un cd nel quale, su un substrato folcloristico costruito con strumenti della cultura tradizionale mediterranea, egli innesta arditamente chitarra elettrica, basso, sintetizzatore e sax. È arduo recensire questo lavoro: si rischia di generare incredulità nel dire che, in barba alla prassi etnico-mediterranea, l’opera si compone prevalentemente di brani strumentali; che Calì stratìa to fengàri è un pezzo per sole percussioni, zampogna e sintetizzatore; che in Zambìca, la zampogna a chiave suona su una base funky di chitarra e basso, in assenza completa di batteria ma con ritmi scanditi dal tamburello. C’è da chiedersi, infine, come sia possibile che Malika proietti nella testa dell’ascoltatore degli spunti melodici appena sussurrati atteso che nel brano sono suonati solo ed esclusivamente strumenti percussivi. Ma non trasalga il lettore: l’opera contiene anche soluzioni meno ardite, più vicine alla tradizione folcloristica, proposte da strumenti quali il flauto, la mandola, il bouzouki, il violino. Un esordio convincente, coraggioso, assolutamente inusuale anche per un pubblico già avvezzo di etnica, che auspichiamo non passi inosservato (Recensione apparsa sul n. 34, anno 2008, di “Musikbox - Rivista di cultura musicale e guida ragionata al collezionismo”, qui pubblicata per gentile concessione dell'autore).

Band:
Alessandro Mazziotti - flauto, zampogna zoppa, cornamusa, live electronics
Mario Pio Mancini - violino, oud, bouzuki
Leonardo Mattiello - basso, fretless
Federico Stanghellini - chitarra elettrica ed acustica
Andrea Piccioni - percussioni
Gianluca Zammarelli - voce, chitarra battente


 

Thrangh
Erzefilisch

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Scritto da Gianluca Livi Venerdì 04 Settembre 2015 21:00

Ve lo ricordate Naked City, splendido album firmato John Zorn risalente al 1990? Si trattava di un opera in cui, senza alcun apparente senso logico, venivano miscelati differenti discorsi musicali: (vari tipi di) jazz, sperimentazione, ambient, addirittura hard-core e grind-core (per i profani, sono forme estreme di metal). Un episodio non facile da digerire – suonato, tra gli altri, da personaggi del calibro di Bill Frisell e Joey Baron – ma che certamente rappresentava un perfetto connubio di generi musicali assai distanti tra loro. Bene, se vi è piaciuta quell’opera, non potete non appezzare Erzefilisch (che a Nekd City si ispira palesemente), eccezionale esordio discografico in cui sono rinvenibili, oltre alle influenze musicali sopra citate, una certa fusion d’assalto, tracce Crimsoniane di metà anni ’70 e il Frank Zappa più ingegnoso e sperimentale. I Thrangh prospettano scenari improbabili e non comuni, distinti in 12 brani strumentali, tutti collegati tra loro, suonati alternando a quelli tipici della formazione jazz (chitarra, basso, batteria e sax), strumenti inusuali come il javanese gong, la baritone guitar, il guitar synth, il didjeridù, il coulisse flute. Questo lavoro – eseguito, peraltro, con tecnica e stili ineccepibili – possiede il potenziale di affascinare tanto un pubblico squisitamente jazz, quanto più marcatamente rock, purché di mentalità assai aperta (vale per gli esponenti di entrambe i generi), amante di inedite commistioni e complesse sperimentazioni (Recensione apparsa sul n. 34, anno 2008, di “Musikbox - Rivista di cultura musicale e guida ragionata al collezionismo”, qui pubblicata per gentile concessione dell'autore).


 
 

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