Scritto da Valentino Butti e Janus Mercoledì 16 Settembre 2015 21:47
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Scritto da Valentino Butti Martedì 15 Settembre 2015 20:37
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Scritto da Gianluca Livi Martedì 15 Settembre 2015 16:44
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Scritto da Gianluca Livi Domenica 13 Settembre 2015 15:09
![]() Esordio discografico cantato in italiano che guarda ad un certo rock a metà tra indie e i primi Litfiba, gruppo che comunque, voce a parte, non è clonato bovinamente, ma citato con rispetto. Sono presenti anche interessanti parentesi liquide ("Ospiti"), non troppo marcate digressioni pop-rock e cantautoriali (rispettivamente in "Sospesa in volo" e “Notte”), sporadiche influenze post-psych (“Viaggio astrale”). La voce - che canti o si esprima recitando - è marcatamente influenzata dallo stile di Piero Pelù, risultando per questo motivo troppo enfatica, talvolta quasi irritante, proprio come quella del cantante preso a riferimento. Una più intelligente personalizzazione della proposta vocale - invero non così lontana, con un minimo di sforzo in più - potrebbe far conseguire a questo gruppo più interessanti e concreti risultati. Band: Marco Bellone: voce Giuseppe “Beppe” D’Angelo: chitarra Luciano Ciamarone: chitarra Carlo Marzullo: basso Francesco Faggi: batteria guests: Giancarlo “Giank” Di Giammaria: basso Damiano Cesaroni: batteria tracklist: 01 – Sospesa in volo 02 –Viaggio astrale 03 – Ospiti 04 – Cannibale 05 – Simbiotica essenza 06 – Santi e demoni 07 – Muta 08 – Ti muoio dentro 09 – Notte 10 – Aeroporto Falcone Borsellino |
Scritto da Gianluca Livi Domenica 13 Settembre 2015 15:02
Tracklist 1 – Afloat 2 – Vagabond 3 – Little Sparrow 4 – Barefoot On Shards 5 – All That It Takes |
Scritto da Gianluca Livi Mercoledì 09 Settembre 2015 21:22
Chi è costui, le cui musiche profonde e i testi intelligenti fanno mutare all'istante la mia iniziale decisione di pubblicare un veloce commento nella estemporanea rubrica "Recensioni in pillole" , facendomi deviare, invece, verso una più esaustiva (ed estesa) recensione di stampo classico? |
Scritto da Gianluca Livi Mercoledì 09 Settembre 2015 10:35
Per descrivere il funambolismo eclettico dei romani Tribraco è necessario, come già fu per i Thrangh, qualche numero fa, richiamare alla memoria le splendide ed inusuali commistioni sonore svelate in Naked City, indimenticata prova discografica di inizio anni ’90, ad opera dello statunitense John Zorn, anarcoide jazzista e sperimentatore di avanguardistiche propensioni. A parte le incursioni in territori hardcore - che quest’ultimo proponeva in maniera quasi insistente, e che qui, invece, sono del tutto assenti - il quartetto romano si avventura in settori quali il jazz, il rock e il prog con la sicurezza propria dei musicisti di grande maestria tecnica e compositiva. Cosicché, l’opera offre uno spaccato di quel crossover tanto astruso, quanto affascinante, ove sono inspiegabilmente (e perfettamente) sintetizzati la composizione impostata e la libera improvvisazione, entrambe collocate ai lati di quella immaginaria linea di confine che separa due realtà molto distanti tra loro, quali il rock strutturato e il jazz sperimentale. In tale atipica realtà musicale, si muovono liberamente, in alternanza o congiuntamente, comunque sempre coraggiosamente, sonorità acustiche od elettriche, ritmi sincopati o soluzioni atmosferiche, riff asciutti od effetti sonori, percussioni naturali o vezzi elettronici. Le chitarre di Lorenzo Tarducci e Dario Cesarini, la sezione ritmica composta da Valerio Lucenti e Tommaso Moretti (ai quali si aggiunge il sax soprano di Fabio Mancano in due brani), costruiscono un debutto discografico il cui substrato sonoro è costituito da giochi ritmici (Marco Polo), ambientazioni crimsoniane di metà anni ’70 (Sax song), sperimentazioni sonore di stampo percussivo (ne Il Cucchiaio d’acciaio, ad esempio, vengono suonati dei veri cucchiai metallici da cucina), pura improvvisazione jazz (Benvenuti) e moltissime contaminazioni di genere (Cracking the whip, Fuga da Alghero, Joe l’asino, The human cannonball, Salerno-Reggio Calabria). (Recensione pubblicata per la prima volta nel n. 39, anno 2009, di “Musikbox - Rivista di cultura musicale e guida ragionata al collezionismo”, qui riportata su gentile concessione dell'autore). |
Scritto da Gianluca Livi Mercoledì 09 Settembre 2015 10:27
Scritto da Gianluca Livi Martedì 08 Settembre 2015 17:02
Molto volentieri recupero questa datata recensione di un passato lavoro dei PropheXy, ottima band in cui milita il nostro prezioso collaboratore Gabriele Martelli. Va precisato che all'epoca in cui scrissi la suddetta recensione, non solo Gabriele non era entrato nella redazione di A&B (il suo ingresso, infatti, si sarebbe verificato ben 6 anni dopo), ma io e lui non ci conoscevano affatto. La recensione fu pubblicata per la prima volta nel n. 39, anno 2009, di “Musikbox - Rivista di cultura musicale e guida ragionata al collezionismo”, ed è qui riportata su mia gentile concessione. Come i PropheXy siano arrivati – partendo 2 anni fa da un demo ricco di idee ma assai ingenuo – a fare da spalla per Anekdoten e Le Orme nelle loro recenti esibizioni in nord Italia, lo si capisce ascoltando Alconauta, loro ultima fatica discografica. La band si presenta oggi in termini di estrema originalità, proponendo musica assai dinamica che attinge dal repertorio italiano dei seventies, un po’ alla maniera de Il Biglietto per l’Inferno, con ritmi frequentemente irregolari (forse anche troppo) e continui cambi di tempo, nonché motivi portanti improvvisamente interrotti o caratterizzati da dissonanze e asprezze, sulla scorta del secondo lavoro del Balletto di Bronzo. È estremamente azzeccata la scelta di adottare un flauto incantato, estemporaneo, quasi impalpabile, magistralmente contrapposto all’irruenza della musica tutta. Va citato, a tal proposito, il brano Tritone, uno dei migliori dell’intero lavoro, nel cui intermezzo centrale riecheggiano magistralmente almeno 3 influenze di grosso peso: l’eterea postura della PFM di River Of Life; la delicatezza sognante della compagine Canterburyana; il lirismo soffuso dei primissimi Ezra Winston. Peccato che non ce ne siano altri, di momenti come questi. Il vocalist, infine, è decisamente migliorato: il suo modo di cantare ricorda qualcosa del Peter Hammil più lirico, sebbene non abbia del tutto abbandonato la propensione al tono monocorde, che tanto aveva infastidito nel primo lavoro discografico. Talune linee melodiche da egli proposte, inoltre, appaiono tutt’altro che azzeccate, come in Babba, un brano che altrimenti sarebbe perfetto, con i suoi studiati bilanciamenti tra le orientaleggianti soluzioni tastieristiche tanto care agli Ozric Tentacles e l’esaltazione rockettara di gruppi come il Rovescio Della Medaglia e il già citato Biglietto. |
Scritto da Gianluca Livi Martedì 08 Settembre 2015 16:53
Rinati nel ‘99, con un organico costruito attorno a 3 membri storici, gli Osanna di 10 anni dopo sono sopravvissuti alla dipartita del bassista Enzo Petrone e ai problemi di salute che hanno afflitto Corrado Rustici, l’originario chitarrista, costretto prima ad abbandonare l’attività dal vivo e, successivamente, il gruppo stesso. Al solo Lino Vairetti, pertanto, l’onere e l’onore di portare avanti la gloriosa sigla Osanna, con una formazione quasi del tutto rinnovata, alla quale, da quasi due anni, si è aggregato stabilmente nientemeno che David Jackson, improvvisamente fuoriuscito dai Van Der Graaf. Il fiatista deve essere considerato membro stabile della band, piuttosto che semplice ospite, come tengono a precisare tutti i musicisti, Jackson compreso, nelle note del booklet. Impreziosita dalla presenza di personaggi quali TM Stevens (Steve Vai), David Cross (King Crimson), Gianni Leone (Balletto di Bronzo) e, inaspettatamente, Lello Brandi, primissimo bassista degli Osanna, l’opera appare ben congegnata, sensata, credibile, stilisticamente assai elegante: “Mirror Train” e “L’uomo”, ad esempio, prive di quelle sonorità cupe che le caratterizzavano in origine, hanno guadagnato freschezza e dinamicità; chiamare cover “Ce vulesse”, ci sembra una gratuita forzatura: il gruppo, infatti, propone un arrangiamento spoglio delle pacate sonorità jazz-rock della versione originale, ma oltremodo ricco delle vivaci e colorite energie partenopee, peraltro inframmezzate da continui cambi di tempo, sublimati dagli ottimi fiati progressivi di Jackson; la splendida performances del Solis String Quartet in “There will be time”, non fa assolutamente rimpiangere la totale assenza dell’originario arrangiamento orchestrale, sostituito dagli interventi misurati di viole e violoncelli (quattro in tutto), proposti in una originale e affascinante chiave minimale, con sporadiche punte di disarmonica dissonanza. È doveroso, infine, citare anche la nuova versione de “‘A zingara”, più fluida negli arrangiamenti, con il sax sempre elegantemente in vista, molto vicina agli stilemi della nuova canzone partenopea, tipica del primissimo Pino Daniele: il gruppo si è semplicemente (e legittimamente) appropriato di una formula di cui è stato principale ispiratore negli anni ‘70. L’unico difetto dell’opera, l’assenza di un vero e proprio inedito, è largamente compensato dall’inserimento di una splendida versione di “Theme One”, mitico cavallo di battaglia dei Van Der Graaf Generator targati 1972. Prima tiratura limitata a 1000 copie, in edizione cartonata, con litografia autografata dal leader. Lino Vairetti: lead vocals, guitar, blues harp David Jackson: saxophones, flute Irvin Vairetti: synth, pad, vocals, mellotron Sasà Priore: keyboards, organ, synth, vocals Nello D'Anna: bass Fabrizio Fedele: electric and acoustic guitar Gennaro Barba: drums Solis String Quartet: strings Roberto Petrella: acoustic guitar Gianluca Falasca: violin Alfonso La Verghetta: organ Oderigi Lusi: Fender Rhodes Gabry Borrelli: percussion Mariano Barba: drums Sophya Baccini: vocals Tim Stevens: bass Gianni Leone: organ, vocals David Cross: electric violin Lello Brandi: bass (Recensione apparsa sulle pagine di “Musikbox - Rivista di cultura musicale e guida ragionata al collezionismo”, anno 2009, qui pubblicata per gentile concessione dell'autore). |
Scritto da Gianluca Livi Martedì 08 Settembre 2015 16:12
Fondati nel ‘92 dal polistrumentista Mario Pio Mancini e dal chitarrista del Banco, Rodolfo Maltese, gli Indaco rappresentano una delle realtà musicali maggiormente significative del nostrano underground etnico, autore di ben 9 titoli tra LP, DVD e CD (di cui uno, Flying with the Chakras, a nome del solo Mancini): una meta ragguardevole per una band che ha operato in contesti esclusivamente indipendenti. Nel 2006, quella che doveva apparire come la celebrazione dei dieci anni di attività del gurppo, ha assunto le vesti di un epitaffio visto che il complesso si è quasi sfaldato: da una formazione già provata da numerosi cambi di organico, si allontanava anche Mancini che, quasi immediatamente, dava vita ad un progetto chiamato Ypsos (il cui splendido esordio è stato recensito sul n. 34 della rivista), sempre proteso verso suoni di matrice etnica, sebbene maggiormente rarefatti ed intimisti. Terminata questa esperienza, oggi il musicista dà vita ad un nuovo ensemble che ribattezza Nu Indaco (nu è la contrazione della parola inglese new), quasi a voler testimoniare l’inizio di un nuovo cammino, senza per questo dover necessariamente rescindere il legame con un passato discografico di indiscutibile valore artistico. I 15 brani che compongono l’album, infatti, si palesano come genuina e attendibile espressione della tradizione “indachiana”, peraltro tributata con la riproposizione di 4 vecchi cavalli di battaglia (Salentu, Spezie, Su Nuraghe, Ascea), sebbene in chiave rivisitata talché, spesso, le musiche assumono il sapore della novità. Un combo di 7 musicsti, accompagnati da innumerevoli ospiti (tra cui Enzo Gragnaniello, Luigi Cinque, H.E.R. e Andrea Ra), propone contesti musicali fortemente influenzati da atmosfere mediterranee, sulle quali sono inseriti assoli dissonanti di violino (È fatta notte...), interventi ai fiati dall’evidente retaggio jazz, sapientemente incastonati nelle dinoccolate cadenze di un caldo ritmo reggae (Gilgamesh), e, addirittura, un intervento rap su musiche di stampo squisitamente orientale (Haif), talmente credibile da far apprezzare questo genere anche a chi, come lo scrivente, lo odia visceralmente. E, dulcis in fundo, Velia, cantata magistralmente da Gragnaniello, possiede il potenziale dell’hit di successo visto che ha il raro pregio di unire due elementi tra loro apparentemente inconciliabili: il gusto appagante della cultura e una spontanea, sana, genuina orecchiabilità da classifica |
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