Un nome che dura da ben quarantanove anni (leggasi proprio 49!) e venti album in studio, seppur diluiti da un andirivieni di membri per un totale di otto formazioni diverse, ognuna delle quali ha sempre condiviso qualcuno con le precedenti (le cosiddette mark). Dato oramai per disperso il buon Blackmore tra le celtiche braccia della dolce metà Night, anche se ultimamente ritrovato in una improbabile e quantomai dimenticabile veste rock, l'ultima incarnazione dei Deep Purple (Mark VIII) vede oramai stabilmente tra le proprie fila il virtuoso statunitense Steve Morse (anche ex Dixie Dregs) alla chitarra e la vecchia conoscenza Don Airey alle tastiere (degno sostituto del compianto Jon Lord), mentre a tenere alto il vessillo purpureo restano salde le vecchie glorie Ian Paice, Roger Glover e Ian Gillan. Sicuramente i Deep Purple di oggi non sono una band all'avanguardia, come invece lo sono stati agli albori della propria carriera durante gli anni '60 e '70, eppure riescono, a fasi alterne, a sfornare ancora qualche prodotto interessante, proprio come questo InFinite. Il sound strumentale c'è tutto e anche a Gillan bisogna dare atto di essere stato capace di contenere le sue esuberanti, ma non più all'altezza, doti canore, avendo finalmente (quasi) rinunciato a lanciarsi su tonalità oramai non più alla sua portata, riuscendo anche a rendere gradevoli o addirittura (e qui mi sbilancio) pregevoli le sue parti di cantato come nella traccia "The Surprising". Quest'ultimo album non è sicuramente un capolavoro, ma va sicuramente ben oltre la semplice sufficienza. È curato nei dettagli ed è suonato alla Deep Purple: tecnico, ma non troppo. L'unica carenza - a mio avviso - più evidente è, forse, una chitarra troppo poco presente o quantomeno sotto tono. Nulla da eccepire sulle qualità tecniche di Morse, ma, ad essere sincero, ho avuto l'impressione che abbia agito da semplice gregario. È pur vero che probabilmente non si sia mai sentito un vero Purple, ma stavolta mi è sembrato senza motivazioni, per la serie: 'faccio il mio dovere ma niente di più'. Qualche parola va spesa anche a favore di Paice e di Glover che, lungi dall'essere quelli degli anni '70, riescono ancora a fornire un valido supporto ritmico inconfondibile. Quello che ho apprezzato più di tutti è stato Airey, al quale è stato affidato il compito di ricreare il sound tipico dei Deep Purple, forse anche meglio di quanto era riuscito a fare Lord negli ultimi anni di attività. Le ritmiche sono per lo più cadenzate e poco frenetiche, il che non è un male, se si considerano i non eccelsi risultati che i Purple hanno raggiunto negli ultimi anni di attività ogni qualvolta hanno tentato di spingere sull'acceleratore, in particolar modo riguardo l'urlato sforzato di Gillan, in questo album fortunatamente pressoché assente. In definitiva quindi InFinite è un album che si attesta a pieno titolo tra i migliori degli ultimi anni, in linea con il più che dignitoso Now what?! e a parte qualche brano evitabile, come ad esempio "Get Me Outta Here", può essere ascoltato senza il timore di incappare in qualche cacofonica serie di banali gorgheggi fuori fase. Non bisogna aspettarsi un ritorno alle origini ma per questa volta c'è di che accontentarsi....se non altro per la curiosità di ascoltare la cover "Roadhouse Blues" dei Doors. |
Ian Gillan: vocals |