Forse eccessivamente generoso nella durata e nel numero di tracce l’ultima fatica di Frank Get, cantautore triestino con alle spalle un sostenuto curriculum di album e concerti, si presenta come una raccolta ben ponderata di brani che trovano la loro collocazione geografica nell’America rurale di strade e polvere. Non manca una certa predisposizione ad un suono muscoloso di marca Blues (“Destination Nowhere”) e cover eccellenti ed intelligenti di Willy Deville e Townes Van Zandt che tracciano con chiarezza da quale imbarco arriva il bagaglio di questo autore italiano figlio di culture differenti. I testi dell’album sono molto localizzati nelle terre d’origine del musicista che si fa spesso cantore di vicende legate ai territori del triestino sapientemente collazionate a momenti più esistenzialisti. Se con “Barbed Wire” e la bella “Joseph’s Dream” ci sembra di ascoltare un John Mellencamp di fine anni Novanta, è con “Buffalo Bill” che si precipita all’interno di un sound americano più rarefatto e originale. I Toni Southern Rock di “Smash Down” e “Misty Valley” e “Chain Reaction in salsa Georgia Satellites, evidenziano un certo americanismo di fondo, amorevolmente proposto con disciplina e tanto divertimento. I momenti più convincenti di questo “Rough Man” si manifestano quando Frank Get tiene a freno i suoi pruriti elettrici e ci regala piccoli affreschi semi acustici come “Selfsame Lament” lacerata da una slide insidiosa e “Lost Land Blues”, spaziosa ed eterea come nel titolo. L’album è scritto, suonato e prodotto interamente dal musicista triestino sempre con gusto e senso pratico. Un album che non vuole inventare, ma che preferisce evocare, lasciando tracce di combustibile lungo il cammino. Non ci sono solo riffs muscolari e schitarrate acustiche grattate, ci sono belle parole e storie da raccontare. E’ evidente come il nostro abbia vissuto praticamente tutta la sua vita con addosso il suono di vecchie radio e alcuni b-movies americani nel cuore che disegnano una terra sconfinata luccicante ma nello stesso tempo fin troppo buia, un po’ come la conclusiva “The last Waltz” titolo altisonante che decreta la fine di un percorso lungo 18 brani. Il tutto si consuma per oltre un’ora tra i fantasmi di Bruce Springsteen, la calda primavera di John Fogerty e i sentori di un liberatorio viaggio in moto. TRACKLIST:
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