Dopo tre lunghi anni di attesa, ecco pubblicato il terzo lavoro dei canadesi Arcade Fire, band di punta del nuovo revival rock.
Innanzitutto, mettiamo subito in chiaro una cosa: gli Arcade Fire sono una band eccezionale, il loro livello è di molto superiore alla media delle band indie rock d’oggi. Le critiche che faccio loro vanno interpretate partendo dal presupposto che da loro ci si aspetta sempre il massimo. E la prima metà del disco risponde piuttosto bene a queste aspettative, ondeggiando tra folk fatato (“Half Light I”), orchestrazioni magniloquenti (“Rococo”) e fulminanti garage rock (“Empty Room”). Tuttavia, gli arrangiamenti segnano un netto passo indietro rispetto ai primi due dischi. Le parti musicali tendono a ripetersi in modo ciclico lungo i brani, senza quell’imprevedibilità che aveva fatto la fortuna dei pezzi migliori di Funeral (“Tunnels”). La musica ha un ruolo di accompagnamento passivo, senza quasi mai essere vera protagonista delle canzoni, i brani non hanno un’evoluzione vera e propria, si rifanno a strutture puramente pop. I brani presentano andamenti eccessivamente lineari, sono privi (con poche eccezioni) di quelle strutture complesse che avevano favorevolmente impressionato in Neon Bible. Insomma, le ambizioni della band appaiono notevolmente ridimensionate, ma non se ne capisce il motivo, viste le eccellenti prove del passato. Questo non significa che le canzoni non siano belle, anzi, si fa fatica a trovare brani veramente scadenti, ma è anche difficile individuare gioielli veri e propri, i pezzi insignificanti sono però troppi per un disco degli Arcade fire. “The Suburbs” ad esempio è un pezzo gradevole e arioso quanto semplice e ripetitivo. È il migliore del lotto ma non lascia a bocca aperta come le gemme del passato. Si è preferito puntare sulla quantità piuttosto che concentrare tutto il potenziale in pochi episodi straripanti. Infatti la band canadese, nella persona di Win Butler, continua a dimostrarsi abile artigiana di melodie, che restano tra le migliori in circolazione di questi tempi, ma l’eccessiva uniformità stilistica e l’appeal un po’ ermetico ne penalizzano la fruizione; servono numerosissimi ascolti per apprezzare appieno quest’opera, soprattutto nella seconda parte. Nonostante la buona qualità, il disco non spicca il volo come i due predecessori, rimanendo intrappolato in un alveo di malinconia un po’ deprimente. La scelta di inserire sedici brani si rivela poco azzeccata e, unitamente alla scarsa immediatezza dei brani, contribuisce a rendere The Suburbs un disco tendenzialmente noioso e lentissimo da digerire. La qualità della scrittura è rimasta immutata (“Ready To Start”), sono le scelte compiute dalla band a penalizzare il quid squisitamente melodico dell’opera. Troppe canzoni, troppi doppioni, arrangiamenti didascalici e mai in primo piano sono solo alcuni dei difetti che affliggono questo lavoro. Ad esempio, l’accoppiata “Wasted Hours” e “Deep Blue” non fa altro che appesantire l’ascolto, senza aggiungere niente di positivo, ma sono molti i brani inutili. Un disco che poteva essere molto migliore; se solo la band avesse scremato maggiormente tra i brani a disposizione, eliminando gli episodi più stucchevoli, e si soffermata con più cura sugli arrangiamenti avrebbe potuto dar vita all’ultimo tassello di una trilogia da consegnare direttamente alla storia della musica, perché la qualità intrinseca di alcuni brani di questo The Suburbs è anche superiore ai fulgidi capolavori del passato. Purtroppo Butler, Chassagne e soci non hanno saputo gestirsi al meglio e ci ha regalato un lavoro mezzo riuscito (o mezzo fallito). La speranza è che imparino dai propri errori e tornino tra qualche hanno con un nuovo meraviglioso disco. 60/100
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Win Butler: Voce e chitarra Anno: 2010 Sul web: |