Ci sarà abbastanza acqua, quando la mia nave arriverà? E quando prenderò il largo, ci sarà abbastanza vento? Queste, tra le poche parole conclusive del debutto discografico dei The Dead Weather, Horehound. Mi piace incominciare così questa volta, dalla fine, tanto per avere le idee più chiare di ciò che resta al passaggio delle undici pallottole messe in canna dai membri di questa sanguinaria gang: Allison Mosshart dei Kills, alla voce; il chitarrista tuttofare Dean Fertita, che ha militato nei Queens of the Stone Age e ha dato una mano ai Raconteurs, di cui è membro Jack Lawrence, quasi sempre al basso, e un batterista la cui bravura e personalità non è certo un elemento di poco conto nella perforazione delle suddette pallottole, e ne è un buon esempio il colpo dietro la nuca (in stile esecuzione) intitolato "Hang You From The Heavens", dove l'uomo dietro le pelli mi ha ricordato la creatività di un certo Dale Crover, mai tecnicissimo ma sempre inconsueto, nell'affrontare un brano sostenuto da un riff marmoreo e che proietta quel filo di voce della Mossahart in un sussulto senza fine, giocando sui contrasti, tra fragilità estrema e pesantezza inaudita della chitarra eccessiva e carica di Fertita (coautore con lei del pezzo, come della maggior parte dei brani dell'album). Aleggia un senso di malessere e di malattia, le immagini evocate nei testi, nei quali si ripetono riferimenti al peccato, al diavolo, all'inferno, e al male fisico, danno la sensazione di trovarci davanti a un lavoro angosciato, infarcito di brutti presagi, come quello dell'acqua che potrebbe finire, e la nave rimanere arenata. Le immagini nell'artwork sono lugubri (teschi e pistole) e riprendono lo stile noir dei personaggi che la band ha voluto creare, ma la cosa interessante sta nel frequente uso della simmetria, espediente grafico per rendere persino l'affascinante volto della Mossahart una figura inquietante, addirittura ciclopica, in copertina. Ma la simmetria è anche caratteristica dei primi esseri viventi sulla terra, questi erano esseri immobili, la simmetria rimanda all'idea di qualcosa di statico e ripetitivo, e la musica dei The Dead Weather è spesso fatta da moduli che si ripetono in loop, con poche variazioni, come accade nell'episodio dub di "I Cut Like A Buffalo" (unico brano di cui è autore il batterista, che qua canta anche), dove l'organetto ripete se stesso fino a rapire i sensi, e l'unica variazione è data dagli scratch vocali che accompagnano il Rap malato che a volte sembra finire in colpi di tosse. Non me la sentirei di definire questo brano come una contaminazione musicale, o almeno, lo è nella misura in cui ad essere recuperate sono le radici Blues, persino parlato; viene recuperata la tradizione che va da Janis Joplin ad Exene Cervenka e rivive in Mossahart, che si diverte a fare la parte della dannatissima cantante Blues alle prese con dannatissime liriche che parlano di rapporti tra persone nei quali non si sa mai dove finisce la violenza e dove incomincia l'eros, a metà tra il grottesco e il surrealismo. L'idea di rivitalizzare il Blues/Rock e presentare un album grezzo, fumoso e torbido (anche eccessivamente abbozzato), non deve far pensare che siamo davanti a un cumulo di roboanti sferzate chitarristiche soliste pompate a mille (se vi piace il genere, è appena uscito il nuovo album dei Dinosaur Jr, Farm), queste le trovate solo nell'apertura con "60 Feet Tall", ma qua il suono non è pienissimo e bollente, anzi, resta vuoticcio e cade spesso in un gelido silenzio, che fa assolutamente parte del raggelante quadro noir del disco, per poi sfociare in un assolo sgraziato e rumoroso come quelli di Kim Thayl, nel debutto dei Soundgarden (se volete qualcosa di fine e levigato, provate invece con il nuovo Get Lucky di Mark Knopfler). Nonostante il grande attaccamento ai sixties, e alla voglia di suonare corposamente e immancabilmente Blues, tra l'altro sottolineato dalla cover di "New Pony" di Bob Dylan (non l'avevo mai sentita prima, devo essere onesto), resa attuale e rumorosissima, con una violenta interpretazione chitarristica, non esclude la grande modernità della proposta dei The Dead Weather, che non perdono occasione per innestare qualcosa di strano in queste canzoni fondamentalmente convenzionali (ma mai banali, ancorchè non perfette, vista la grande quantità di imperfezioni e sbavature, per "impreziosire" il tutto). Alla fine c'è sempre l'elemento spiazzante, o la mancanza spiazzante (avvertita come una ferita), che provoca o un effetto sorpresa o una mancanza dolorosa (certi brani sembrano veramente lasciati appesi li, senza una conclusione, senza un vero sviluppo), come un puzzle che resta sempre vuoto nonostante si provi a ricomporlo tassello dopo tassello: resta sempre qualche pezzo fuori. Le loro canzoni sono come un delitto. C'è un corpo che giace senza vita sul pavimento, ci sono degli indizi, ci sono dei sospetti, ma non si avrà mai un quadro completo di ciò che è successo: Prima o poi avremo una verità processuale, ma la verità storica è definitivamente perduta nelle pieghe del tempo. Tutto può essere, tutto può succedere, ed ecco che si torna a quel senso di angoscia, l'improvvisa possibile mancanza d'acqua. Idee spiazzanti sono contenute ora nell'assolo sfavillante dell'urlata "Bone House" (già il titolo è tutto dire), atipico e inaspettato, cade come un evento assurdo e imprevedibile, o nei sintetizzatori spesso avvertiti qua e la come corpi estranei, tutto suonato dal poliedrico Fertita, o quel gusto retrò di "Rocking Horse" (dove bassista e chitarrista suonano invertiti) che diventa man mano confinante con il frastuono noise, giusto un lampo, un attimo, il tempo di illuminare, di terrore e di elettricità, l'oscuro cielo plumbeo che si spalma come catrame, lungo tutti i quaranta minuti dell'album. Non saranno certo dei campioni d'avanguardia, nemmeno lontanamente, ma non sono nemmeno dei conservatori o degli speculatori sul revival, ce la mettono tutta per fare cose il più possibile non convenzionali e diverse, pur muovendosi in territori dove è stato esplorato e scoperto tutto, anzi, forse il loro compito trova il suo fascino nel riuscire ad accompagnare la normalità del tipo di canzoni che vogliono suonare, all'anormalità di certo modo di reinterpretarne la forma ed i classici espedienti; il risultato potrà piacere o potrà anche fare schifo, è questione di gusti, ma l'idea che brucia sotto questo cumulo di cenere, è una idea brillante. I brani sono brevi, irruenti, nervosi, nerissimi, talvolta allucinati tanto da sembrare farfugliati da gente disturbata, tra cori, controcanto e lamenti, che hanno l'effetto di una decina di vecchiette raccolte ad infastidire il prete con il loro rosario, voci scomposte, sovrapposte in modo ora disordinato e volutamente nebuloso, o anche in modo tale da enfatizzare la ritmica, come nel trascinante duetto Rap di "Treat Me Like Your Mother", la migliore e più compatta, cattiva, erotica e tamarra come poche, lanciata su un groove micidiale e sostenuta da non poche idee geniali che ne fanno una canzone originale, e straordinariamente metallica, oltre che un singolo perfetto, segno di personalità invidiabile, come del resto anche la strumentale "3 Birds", un altro stupefacente ibrido tra sperimentalismo e tradizione, nella sua brevitas esplora soluzioni interessanti, che partono quasi industrial e a la Morello, e finiscono con una coda in progressione, a dir poco divertente, un brano che non t'aspetti assolutamente, e sulla quale, spero vogliate perdonarmi, non voglio svelare nulla. Sul versante opposto, la tradizionale ballata folk, "There Will Be Enough Water?" un piccolo capolavoro dove affiora il magnifico tocco del batterista, alle prese questa volta anche con la chitarra acustica (mentre Dean Fertita suona al piano dei dettagli molto importanti), nonchè la sua voce, qua così malata che sembra l'anelito di un morto parlante, sepolto nel deserto. Voglio afferrarti per capelli ripete fino allo sfinimento una canzone. Non so se i The Dead Weather provochino a tutti questo effetto ma, capelli o non capelli, entrano facilmente nella testa, anche se non avete capelli dove loro possano appigliarsi. Loro sono come un brutto presentimento, quando vi viene in mente, non ve lo scrolla di dosso nessuno. Ah, dimenticavo, il batterista del gruppo è Jack White dei White Stripes. Forse dovevo dirlo come prima cosa. 80/100
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Alison Mosshart: Voce e chitarra Anno: 2009 |