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King's X: 1992/2005

 

KING'S X

Anno: 1992
Genere: Hard Rock
Label: Atlantic

Doug Pinnick: Voce e Basso
Ty Tabor: Chitarra
Jerry Gaskill: Batteria

01. The World Around Me
02. Prisoner
03. The Big Picture
04. Lost in Germany
05. Chariot Song
06. Ooh Song
07. Not Just For the Dead
08. What I Know About Love
09. Black Flag
10. Dream in My Life
11. Silent Wind

 

Il passaggio alla Atlantic è rimarcato dalla voglia di ricominciare da capo, e non c’è meglio che il classico espediente dell’album intitolato semplicemente col nome della band, per segnare la rinascita. Peccato però che si tratta di una rinascita nel segno del rock da classifica, e i pezzi più lenti ne escono mortificati non meno dei pezzi duri, ora compressi in una sorta di omogeneizzato piuttosto statico e stanco, anche se veramente potente ogni tanto, come nell’intensissima “What I Know About Love”. Suoni troppo arrotondati e lisci: la band decide di andare sul sicuro e preferisce che nessuno possa rischiare di farsi male. l’ombra dei Beatles finisce per inghiottirli, e “Chariot Song” ne è la prova. Certo, è comunque oro per chi si accontenta di un paio di Oasis qualsiasi, e pure gli stessi Oasis, che devono ancora esordire, per arrivare a un pop rock così limato dovranno aspettare il 1997. Unici motivi seri per ascoltare l’album sono il raga trascinante di “Not Just For The Dead”, non è la prima volta che la band prova una cosa del genere, ma qua forse c’è l’episodio più evoluto della loro tendenza più esotica. Altro pezzo che vale l’ascolto dell’album è l’altrettanto psichedelica ed emozionante “The Big Picture”, un bel pezzo fumoso che piacerà a chi gradisce la musica suggestiva e indefinita.

 

 

DOGMAN

Anno: 1994
Genere: Hard Rock
Label: Atlantic

Doug Pinnick: Voce e Basso
Ty Tabor: Chitarra
Jerry Gaskill: Batteria

01. Dogman
02. Shoes
03. Pretend
04. Flies and Blue Skies
05. Black the Sky
06. Fool You
07. Don't Care
08. Sunshine Rain
09. Complain
10. Human Behavior
11. Cigarettes
12. Go to Hell
13. Pillow

 

Sam Taylor secondo la band non era mai riuscito a imprimere su disco il loro potenziale e la loro energia scatenata dal vivo. La scelta del nuovo produttore cadde su Brendan O’Brien, fresco dei successi con i Pearl Jam e Stone Temple Pilots. E non è certo casuale che i King’s X volessero essere prodotti da un personaggio così capace di far suonare cool per quei tempi. Proprio loro che potevano anche considerarsi in parte progenitori di quelle sonorità, anche se non erano di Seattle e anche se gran parte dei gruppi cosiddetti grunge probabilmente non li avevano mai ascoltati e non avevano assolutamente nulla a che fare con loro. Ma tutti sappiamo o dovremmo sapere che non esiste un solo modello di grunge, e se Jeff Ament, bassista dei Pearl Jam, è arrivato a parlare dei King’s X, come gli inventori del grunge, sicuramente esagerava, ma qualche motivo ci sarà pur stato (teniamo pure conto che Ament parla da bassista, che può essere molto più compassionevole con Doug come songwriter e capirne l’influenza). Risalta un suono molto più grezzo e diretto, che esalta il mood più hard rockettaro anni settanta, attraverso macigni Zeppeliniani come la tremenda “Dogman”, rivelatrice di un lato praticamente inedito dei King’s X (almeno su disco) e il blues ruggente della magnetica “Shoes”, è musica perfettamente calata nell’anno in cui è concepita, ma la teatralità del gruppo rende molto vivida la proposta, credibile, e competitiva con gli altri classici di quel periodo, anche se i King’s X, avevano già abbondantemente seminato qualche anno prima, e qua non fanno altro che raccogliere parte (molto poco) dei loro frutti.
In passato, la tecnica sublime dei King’s X, spaccava il capello in quattro, ora lo stacca strappandolo. Una proposta più omogenea, semplificata e meno livellata, per recuperare in incisività; allora non stupisce il pugno nello stomaco accusato dalla dolente “Flies And Blue Skies” capolavoro soul - blues da pelle d’oca, vellutata, scossa da tutto un tremore elettrico degli intensi sprazzi solistici di chitarra, e coesa da una superlativa prova vocale di Doug, avvolgente. La creatività dell’ottimo batterista Gaskill, non trovano più spazio in composizioni al limite del progressive, ma nel finale a sorpresa di “Don't Care” che, proprio quando sembra appiattirsi verso una maniera consolidata già a metà album, trova il modo per ribadire la diversità di questa band, e forse esprime anche il disagio di questi musicisti, che per essere notati dal grande pubblico, non sanno veramente più cosa escogitare, a parte auto-mutilare la loro efficienza tecnica e compositiva per sembrare meno vari e perfettini (peccato punito con la morte, a metà anni ’90).

 

 

EAR CANDY

Anno: 1996
Genere: Rock
Label: Atlantic

Doug Pinnick: Voce e Basso
Jerry Gaskill: Batteria
Ty Tabor: Chitarra

01. The Train
02. (Thinking And Wondering) What I'm Gonna Do
03. Sometime
04. A Box
05. Looking For Love
06. Mississippi Moon
07. 67
08. Lies In The Sand
09. Run
10. Fathers
11. American Cheese (Jerry's Pianto)
12. Picture
13. Life Going By

Ear Candy, prodotto da Arnold Lanni, che ridiede un po’ di smalto al suono dei tre texani, è un lavoro ambiguo, molto più morbido del precedente, ma più caparbio, i King’s X provano a recuperare quella eterogeneità dei brani che avevano poco prima dell’ultimo disperato tentativo commerciale con il boom del grunge, e tentano la via pop rock / psichedelica, con un disco delicato ma non soave come i lentoni di classe dei tempi d’oro, pieno di pezzi quasi liquidi, che si disfano per quanto sono instabili. Questo è il pregio di Ear Candy, un lavoro volutamente sotto tono, timido, che esce in un momento di crisi per la scena grunge, che volgeva a termine, con il capolinea di Soundgarden e Screaming Trees. Dimostra sensibilità, in un nuovo modo di concepire le i lenti, e voglia di reinventarsi, quando si tratta di mettere mano all’artiglieria pesante.
Da un lato vengono prese come modello la musica neo-hippy dei Blind Mellon e dall’altro la psichedelia graffiante dei Warrior Soul di Chill Pill, e a tal proposito è da rilevare l’acida “67”, che porta ancora con se certe sonorità seattleiane, come l’introduttiva “The Train”, una ballata energica tipicamente anni ’90 dal sapore Hendrixiano. Doug Pinnick però finisce col filtrare la propria voce e coll’immergerla troppo spesso in cori o addirittura a sostituirla con quella di Jerry Gaskill, però come bassista riprende le redini dei pezzi più heavy, e tira qualche strappo violento nell’animalesca “Looking For Love”, un rimbombo Zeppeliniano esaltato dalla potenza del basso di Doug, come nel blues tanto pulito quanto coinvolgente di “Sometimes”, non uno dei pezzi dannati di Dogman, semplicemente una massiccia dose di groove e di stile di Tabor nell’infilare la sua chitarra riempiendo il suono per caricarlo al massimo, ma senza risultare scontato, anzi, provando soluzioni affascinanti e fuori dai canoni dell’heavy metal e del rock pesante secondo cui si comportava a inizio carriera. Il meglio di se, Trebor lo da in “(Thinking And Wondering) What I'm Gonna Do”, che è anche il miglior pezzo dell’album, un pezzo acid blues ascustico con tanto di sfumature tribali ed effetti stranianti come negli Hawkwind acustici, ma con molto più…groove (è evidente, è il filo conduttore di tutta l’opera). Tra i lentoni, “Fathers” resta tuttora il modello di rock americano da classifica, “A Box” e “Picture” aggiungono elementi Beatlesiani alla formula dei Counting Crowes, e trovano almeno in questo il loro perché, a parte l’essere effettivamente suonate alla grande, e possibile causa di collassi emozionali pure per il più freddo degli esseri umani.




Nello stesso anno rilasciano un best of, e si licenziano dalla Atlantic, perché i tempi del grunge sono finiti ed i limoni da spremere sono altri, non di certo i King’s X, che non hanno mai conquistato il pubblico, ne quando certe cose le avevano intuite prima degli altri,ne in tempi di vacche grasse. È finita la festa, e sui titoli di coda i King’s X tornano a casa, per così dire, presso la Megaforce, e rilasciano Tape Head (1998) che è più coeso del precedente; la voce del buon Doug, pur meno potente di prima, fa ancora fa la differenza in “Little Bit Of Soul”. Il prezzo da pagare, per la maggior coesione è che si tratta di pezzi facilotti, che più easy non si può, certo, oro puro rispetto alla media dei pezzi rock trasmessi in radio e tv dieci anni dopo, ma anche il nulla totale rispetto a quanto fatto dieci anni prima. Da segnalare solo “Ono”, e “Mr.Evil”. I King’s X recuperano durezza e groove, però gran parte delle canzoni è un cumulo di escamotage triti e ritriti, che nel successivo Please Come Home...Mr. Bulbous (2000) viene diluito con melodia in abbondanza e ulteriore Beatle-dipendenza, che blocca pure i pochi pezzi che si salvano.

In Manic Moonlight (2001) scoprono i prodigi dell’elettronica e di poter ancora dare qualche lezione di funk alle nuove generazioni, ma ciò è dovuto principalmente al basso di Doug che, abbandonato il suo dodici corde da diversi album ormai, qua riscopre come farsi trascinatore di tutta la band, attraverso quel magnetismo che può rendere i King’s X un amalgama di suoni esplosivi, il tiro in porta però tocca quasi sempre a un Ty Tqbor praticamente rinato, anche per la stupenda ritmica del disco, non solo per le sue uscite fantasiose.
La band non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di rilasciare un rifacimento di una serie di loro pezzi mai realizzati, risalenti agli anni ottanta. I fan non volevano che andassero perduti, e così, per l’amor di Dio, non si butta via niente, e i King’s X con Black Like Sunday (2003) fanno fare un della ginnastica ai fan della prima ora. Per la seconda volta finisce l’avventura con la Megaforce, e si parte per la Inside Out, ed è l’ora di Ogre Tones (2005), un spudorato tentativo di suonare moderni e diretti, senza troppi fronzoli, senza lasciare però nemmeno troppo al caso, come nel lontano ruvidissimo Dogman, che però aveva il pregio di suonare tremendamente potente e sincero, due attributi che qua vengono meno in favore di una indiscutibile professionalità. Ulteriormente annacquato, XV (2008), serve solo a celebrare i vent’anni di carriera.
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