KING'S X Anno: 1992 Genere: Hard Rock Label: Atlantic Doug Pinnick: Voce e Basso Ty Tabor: Chitarra Jerry Gaskill: Batteria 01. The World Around Me 02. Prisoner 03. The Big Picture 04. Lost in Germany 05. Chariot Song 06. Ooh Song 07. Not Just For the Dead 08. What I Know About Love 09. Black Flag 10. Dream in My Life 11. Silent Wind |
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Il passaggio alla Atlantic è rimarcato dalla voglia di ricominciare da capo, e non c’è meglio che il classico espediente dell’album intitolato semplicemente col nome della band, per segnare la rinascita. Peccato però che si tratta di una rinascita nel segno del rock da classifica, e i pezzi più lenti ne escono mortificati non meno dei pezzi duri, ora compressi in una sorta di omogeneizzato piuttosto statico e stanco, anche se veramente potente ogni tanto, come nell’intensissima “What I Know About Love”. Suoni troppo arrotondati e lisci: la band decide di andare sul sicuro e preferisce che nessuno possa rischiare di farsi male. l’ombra dei Beatles finisce per inghiottirli, e “Chariot Song” ne è la prova. Certo, è comunque oro per chi si accontenta di un paio di Oasis qualsiasi, e pure gli stessi Oasis, che devono ancora esordire, per arrivare a un pop rock così limato dovranno aspettare il 1997. Unici motivi seri per ascoltare l’album sono il raga trascinante di “Not Just For The Dead”, non è la prima volta che la band prova una cosa del genere, ma qua forse c’è l’episodio più evoluto della loro tendenza più esotica. Altro pezzo che vale l’ascolto dell’album è l’altrettanto psichedelica ed emozionante “The Big Picture”, un bel pezzo fumoso che piacerà a chi gradisce la musica suggestiva e indefinita.
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DOGMAN Anno: 1994 Genere: Hard Rock Label: Atlantic Doug Pinnick: Voce e Basso Ty Tabor: Chitarra Jerry Gaskill: Batteria 01. Dogman 02. Shoes 03. Pretend 04. Flies and Blue Skies 05. Black the Sky 06. Fool You 07. Don't Care 08. Sunshine Rain 09. Complain 10. Human Behavior 11. Cigarettes 12. Go to Hell 13. Pillow |
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Sam Taylor secondo la band non era mai riuscito a imprimere su disco il loro potenziale e la loro energia scatenata dal vivo. La scelta del nuovo produttore cadde su Brendan O’Brien, fresco dei successi con i Pearl Jam e Stone Temple Pilots. E non è certo casuale che i King’s X volessero essere prodotti da un personaggio così capace di far suonare cool per quei tempi. Proprio loro che potevano anche considerarsi in parte progenitori di quelle sonorità, anche se non erano di Seattle e anche se gran parte dei gruppi cosiddetti grunge probabilmente non li avevano mai ascoltati e non avevano assolutamente nulla a che fare con loro. Ma tutti sappiamo o dovremmo sapere che non esiste un solo modello di grunge, e se Jeff Ament, bassista dei Pearl Jam, è arrivato a parlare dei King’s X, come gli inventori del grunge, sicuramente esagerava, ma qualche motivo ci sarà pur stato (teniamo pure conto che Ament parla da bassista, che può essere molto più compassionevole con Doug come songwriter e capirne l’influenza). Risalta un suono molto più grezzo e diretto, che esalta il mood più hard rockettaro anni settanta, attraverso macigni Zeppeliniani come la tremenda “Dogman”, rivelatrice di un lato praticamente inedito dei King’s X (almeno su disco) e il blues ruggente della magnetica “Shoes”, è musica perfettamente calata nell’anno in cui è concepita, ma la teatralità del gruppo rende molto vivida la proposta, credibile, e competitiva con gli altri classici di quel periodo, anche se i King’s X, avevano già abbondantemente seminato qualche anno prima, e qua non fanno altro che raccogliere parte (molto poco) dei loro frutti.
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EAR CANDY Anno: 1996 Genere: Rock Label: Atlantic Doug Pinnick: Voce e Basso Jerry Gaskill: Batteria Ty Tabor: Chitarra 01. The Train 02. (Thinking And Wondering) What I'm Gonna Do 03. Sometime 04. A Box 05. Looking For Love 06. Mississippi Moon 07. 67 08. Lies In The Sand 09. Run 10. Fathers 11. American Cheese (Jerry's Pianto) 12. Picture 13. Life Going By |
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Ear Candy, prodotto da Arnold Lanni, che ridiede un po’ di smalto al suono dei tre texani, è un lavoro ambiguo, molto più morbido del precedente, ma più caparbio, i King’s X provano a recuperare quella eterogeneità dei brani che avevano poco prima dell’ultimo disperato tentativo commerciale con il boom del grunge, e tentano la via pop rock / psichedelica, con un disco delicato ma non soave come i lentoni di classe dei tempi d’oro, pieno di pezzi quasi liquidi, che si disfano per quanto sono instabili. Questo è il pregio di Ear Candy, un lavoro volutamente sotto tono, timido, che esce in un momento di crisi per la scena grunge, che volgeva a termine, con il capolinea di Soundgarden e Screaming Trees. Dimostra sensibilità, in un nuovo modo di concepire le i lenti, e voglia di reinventarsi, quando si tratta di mettere mano all’artiglieria pesante. |
Nello stesso anno rilasciano un best of, e si licenziano dalla Atlantic, perché i tempi del grunge sono finiti ed i limoni da spremere sono altri, non di certo i King’s X, che non hanno mai conquistato il pubblico, ne quando certe cose le avevano intuite prima degli altri,ne in tempi di vacche grasse. È finita la festa, e sui titoli di coda i King’s X tornano a casa, per così dire, presso la Megaforce, e rilasciano Tape Head (1998) che è più coeso del precedente; la voce del buon Doug, pur meno potente di prima, fa ancora fa la differenza in “Little Bit Of Soul”. Il prezzo da pagare, per la maggior coesione è che si tratta di pezzi facilotti, che più easy non si può, certo, oro puro rispetto alla media dei pezzi rock trasmessi in radio e tv dieci anni dopo, ma anche il nulla totale rispetto a quanto fatto dieci anni prima. Da segnalare solo “Ono”, e “Mr.Evil”. I King’s X recuperano durezza e groove, però gran parte delle canzoni è un cumulo di escamotage triti e ritriti, che nel successivo Please Come Home...Mr. Bulbous (2000) viene diluito con melodia in abbondanza e ulteriore Beatle-dipendenza, che blocca pure i pochi pezzi che si salvano. | |
In Manic Moonlight (2001) scoprono i prodigi dell’elettronica e di poter ancora dare qualche lezione di funk alle nuove generazioni, ma ciò è dovuto principalmente al basso di Doug che, abbandonato il suo dodici corde da diversi album ormai, qua riscopre come farsi trascinatore di tutta la band, attraverso quel magnetismo che può rendere i King’s X un amalgama di suoni esplosivi, il tiro in porta però tocca quasi sempre a un Ty Tqbor praticamente rinato, anche per la stupenda ritmica del disco, non solo per le sue uscite fantasiose. |
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La band non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di rilasciare un rifacimento di una serie di loro pezzi mai realizzati, risalenti agli anni ottanta. I fan non volevano che andassero perduti, e così, per l’amor di Dio, non si butta via niente, e i King’s X con Black Like Sunday (2003) fanno fare un della ginnastica ai fan della prima ora. Per la seconda volta finisce l’avventura con la Megaforce, e si parte per la Inside Out, ed è l’ora di Ogre Tones (2005), un spudorato tentativo di suonare moderni e diretti, senza troppi fronzoli, senza lasciare però nemmeno troppo al caso, come nel lontano ruvidissimo Dogman, che però aveva il pregio di suonare tremendamente potente e sincero, due attributi che qua vengono meno in favore di una indiscutibile professionalità. Ulteriormente annacquato, XV (2008), serve solo a celebrare i vent’anni di carriera. |