Doug Pinnick, bassista e talentuoso cantante, fanatico di Tom Petersson e del basso a dodici corde, tanto che si è fatto personalizzare dalla Hamer, fautore di un suono potentissimo eppure temperato da una forte tendenza alla fruibilità radiofonica, con i suoi King’s X, ha anticipato gli anni ’90 (non solo cronologicamente) e attraversato la decade, e andando decisamente
King's X oltre, rilasciando ininterrottamente nuovi album, fino a quest’ultimo XV, che di certo non annovereremo tra i suoi lavori più importanti, ma ci spinge a riprendere in mano i dischi di una band che non ha mai avuto giustizia commerciale, contrariamente alla grande influenza e alle grandi intuizioni che ha saputo dimostrare, attraverso album tremendamente attuali ma mai figli delle mode, se mai, a volte interpreti, più o meno riusciti, di un mondo il cui gusto cambia incessantemente, nel quale loro fanno da sempre la figura dei perdenti, tra ingiustizie del mercato, scarsa visibilità e contraddizioni interne. Vediamo sinteticamente gli episodi più importanti, lasciando a chi è interessato la possibilità di approfondire nella loro corposa discografia che qua mi limito a tratteggiare.
OUT OF THE SILENT PLANET Anno: 1988 Genere: Hard Rock Label: Megaforce Doug Pinnick: Voce e Basso Ty Tabor: Chitarra Jerry Gaskill: Batteria 01. In the New Age 02. Goldilox 03. Power of Love 04. Wonder 05. Sometimes 06. King 07. What Is This? 08. Far, Far Away 09. Shot of Love 10. Visions |
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I King’s X furono scoperti da Sam Taylor, che li portò alla Megaforce records, e divenne loro manager e produttore. Da questo momento, con Out Of The Silent Planet inizia una lunga rincorsa del successo attraverso un compromesso musicale che è la vera trovata dei King’s X: il tentativo di unire istanze radiofoniche piuttosto marcate a un rock molto aspro e duro che non è ne prettamente ottantiano ne prettamente revival e neanche chissà quanto avveniristico, ma una sorta di via di mezzo, una proposta molto ponderata e lavorata che fa di questa band l’esatto opposto dell’intransigenza, dei mediatori nati, pronti a bilanciare ogni spinta in modo da realizzare il lavoro perfetto. La formula si avvale della esecuzione da parte di ottimi musicisti, un Ty Tabor potentissimo nelle sue parti di chitarra, con quel riffing in D-tuning che sarà il trend degli anni a venire (sono stati pionieri in questo), vero propulsore della band, attraverso riffs ghiacciati in “The New Age” per esempio, aperta da una atmosfera da brivido e condotta sempre sul filo del rasoio, fino al rilancio di Tabor verso un assolo liberatorio, un monolite di metallo ammorbidito (e questo è il bello, e il succo di tutta la proposta) da una voce, quella del bassista di colore Doug Pinnick, di chiarissima aspirazione soul, qua drammatica nel declamare poesie dell’apocalisse non molto diverse da quelle dei contemporanei Warrior Soul, ma che qua assumono le tinte della black music, grazie a variazioni del tema in chiave gospel in “Power Of Love” che è allo stesso tempo stradaiola e pungente, non certo un piagnisteo, ma nemmeno becero metallo; o a lenti soul–pop come la tipicamente ottantiana “Goldilox”, proprio per mettere in netta evidenza il calore del grandioso cantante, che mostra classe e vigore da maestro, pur in un album grezzo e aspro come questo, dove la verve del power trio non li scolla mai da ambizioni più o meno taglienti, e Tabor ribadisce sempre il concetto con roventi parti soliste. “Wonder” e “What Is This” –ricordiamo che siamo nel 1988- intuisce già qualcosa che verrà ripreso dagli Alice In Chains, un hard rock molto metallico e tremendamente doloroso, sempre recitativo, quasi tenebrosamente colloquiale, sembra da un lato riconnettersi all’eredità dei lavori di David Coverdale, e dall’altro già gettarsi negli anni ’90, con un mood tristissimo eppure da leoni, pronti a battersi, e le armi sono sempre quelle, strumenti suonati nella migliore tradizione hard rock, e qualche effetto sorpresa come la presenza di del sitar e atmosfere esotiche, vedi a tal proposito anche “Far, Far Away”. Un disco solido e completo, non troppo ruffiano, non troppo ortodosso, ma un prodotto finemente lavorato e con dentro l’ anima.
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GRETCHEN GOES TO NEBRASKA Anno: 1989 Genere: Hard Rock Label: Megaforce Doug Pinnick: Voce e Basso Ty Tabor: Chitarra Jerry Gaskill: Batteria 01. Out of the Silent Planet 02. Over My Head 03. Summerland 04. Everybody Knows a Little Bit of Something 05. The Difference (In the Garden of St. Anne's-on-the-Hill) 06. I'll Never Be the Same 07. Mission 08. Fall on Me 09. Pleiades 10. Don't Believe It (It's Easier Said Than Done) 11. Send a Message 12. The Burning Down |
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La verità, il mondo della finzione, il bene, il male, il messaggio di verità: questi i motivi ricorrenti nell’apertura mistica del secondo album, così connesso al primo che il brano di apertura reca il titolo del primo disco: “Out Of The Silent Planet”, atmosfera da preghiera rock, sfumata da una lunga coda psichedelica giocata con un etereo bagno di sitar attorno al lungo lamento a due voci che si completano l’una nella risonanza nell’altra. Siamo in presenza ancora di hard rock, forse ancora più lussureggiante, come nella solenne “I'll Never Be The Same” o in “Over My Head” dove il brio e l’adrenalina travolgenti non sono altro che una celebrazione della grandezza del Signore, e dell’enormità della vita, e la voce -come ogni altro strumento- cerca d’arrivare sempre più in alto per toccare il cielo, ma a primeggiare è sempre l’inquieto Tabor, qua veramente pervaso da spiritualità elettrica che scorre lungo le corde della sua chitarra, velocissime; l’ispirazione è ancora il gospel, ma la forma è quella dell’hard rock, semplicemente. “Everybody Knows A Little Bit Of Something” è un altro gioiello di potenza e goroove, addirittura funky con stacchi che ricordano il progressive più easy listening o ritornelli a la Yes nella fervente “The Mission”(con tanto di intro d’organo) di grande trasporto nel finale, e di certo i Rush-ismi sono interessanti quando in “Fall On Me” si vuole provare a sfoderare qualche trucchetto ritmico di grande effetto grazie al creativo batterista che qua mostra di saper stupire senza snaturare il pezzo dal suo fondamentale equilibrio(elemento indiscutibile per ogni canzone della band). Come un cuore che batte all’interno di un blocco di cemento nel quale si incastra una città assordata da rumori metallici, la musica di questi King’s X è il calore che dilata le strette pareti dell’ottusità, si fa strada a fatica come i melodismi leggeri e sinuosi che plasmano, scavano, livellano il metallo pesante per renderlo somigliante a Dio. Certo resta singolare per quell’epoca, far convergere in un disco un’anima psichedelica non certo trascurabile (non se incidi una piccola perla di rarefazione come “The Burning Down” che parte acustica e rasenta l’ambientale), tecniche ispirate a certo progressive, black music e rock duro, che sia questa la coincidentia oppositorum di Cusano? Che la voglia di cantare Dio sublimi il suo messaggio nel cercare di coniugare alla perfezione gli opposti in un unicum inseparabile?
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FAITH, HOPE, LOVE Anno: 1990 Genere: Hard Rock Label: Megaforce Doug Pinnick: Voce e Basso Jerry Gaskill: Batteria Ty Tabor: Chitarra 01. We Are Finding Who We Are 02. It's Love 03. I'll Never Get Tired Of You 04. Fine Art Of Friendship 05. Mr. Wilson 06. Moanjam 07. Six Broken Soldiers 08. I Can't Help It 09. Talk To You 10. Everywhere I Go 11. We Were Born To Be Loved 12. Faith Hope Love 13. Legal Kill |
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Il numero dei pezzi aumenta, e aumenta pure il minutaggio medio dei brani. La lunghezza appare sin dal primo approccio al disco un tratto distintivo di questa terza –ambiziosissima- opera dei King’s X, un superbo concept album tutto da ascoltare e riascoltare con la dovuta attenzione, per coglierne le mille sfumature, i mille stati d’animo, e le infinite particolarità, che ne fanno un’opera unica nella storia recente. Se la lunghezza sia dovuta all’incapacità di scegliere su quale trend calibrare la proposta, può essere un argomento di cui discutere, e sarebbe facile dimostrare il contrario; sta di fatto che quest’album inverte le proporzioni dei precedenti, dove le ballate erano in un certo senso l’eccezione alla regola, che era una proposta a tutti gli effetti hard rock, o addirittura metallica. Qua la scelta è tutta orientata verso la power ballad su modello rock britannico, e per non scontentare proprio nessuno, troviamo, ad allungare il disco, alcuni pezzi particolarmente duri, tra i quali vale la pena ricordare “Moanjam”, addirittura speed metal, probabilmente l’unico pezzo di certo metal cantato da una voce così nera, neanche i Living Colour arrivavano a un contrasto tale, perché loro facevano sempre in modo da inserire dei richiami alla black music anche nel più pesante dei brani, non certo come in questo caso, dove abbiamo un secchissimo e rozzissimo pezzo a tutta velocità, dove Doug strilla a modo suo e poi il resto è un unico infinito solo di chitarra sostenuto dal ritmo forsennato di Jerry, spietato, dietro le pelli. Qualche acuto nel finale e il gioco è fatto. Si sono tolti lo sfizio di inserire un pezzo così estremo in un album sostanzialmente morbido. Secondo alcuni, magari è tutto inutile virtuosismo e autocelebrazione, ma se dobbiamo prendere in considerazione ancora certi luoghi comuni, allora non c’è nemmeno bisogno di stare a discutere,e archiviamo tutto come un album melenso, ma peccheremmo di presunzione, perché qua c’è molto di più, innanzitutto ci perderemmo un mucchio di lenti stupendi, come la Pink Floydiana “Six Broken Soldiers”, e siamo ancora nel 1990, non esiste ancora nessuna mania del brit rock, non c’è nessuna tendenza neo floydiana, non ci sono i Radiohead e soprattutto non ci sono i Coldplay, ed è un peccato che chi segue i Coldplay molto difficilmente arriverà a un disco simile, un peccato perché magari potrebbe anche giovarsi di una Beatlesiana “Mr. Wilson”, oppure di pezzi più corposi come il fine pop rock da classifica di “It’s Love”, primo loro singolo ad essere lanciato su radio e tv musicali ed avere un discreto consenso nel pubblico, ma i tempi non erano ancora maturi per tutto questo, e probabilmente non lo saranno mai, perché in una collezione tanto eterogenea di pezzi, in parte si anticipano mode di qualche anno dopo, e in parte c’è un retaggio hard rock anche esso non proprio maturo per la riaffermazione come fenomeno di massa, e fermo in una sorta di stato di quiescenza, tra il ricordo degli anni ottanta e il botto di Nevermind che deve ancora esserci, e che d’altra parte, non aiuterà neanche molto i King’s X, perché non sono di Seattle e non convinceranno nessuno della loro appartenenza a quel giro. Ancora più fine, la delicatissima “I'll Never Get Tired Of You”, il loro più bel lento di sempre, simile a certi episodi malinconici dei Black Crows, che stavano esordendo praticamente in contemporanea, anche se ancora sotto una pelle piuttosto grezza. |