"Toast" è già tratteggiato, nei numerosi comunicati stampa presenti al momento nella rete, in termini talmente magniloquenti, che è parso ad alcuni opportuno addirittura scomodare, in fase descrittiva, parole altisonanti come "mitico", "memorabile", "leggendario".
Chi scrive dissente garbatamente e cercherà, con la presente recensione, di ridimensionare la fatica discografica, ben lontana, a modesto avviso, dal rappresentare un evento. Andiamo con ordine: gli appassionati vengono a sapere dell'esistenza di questa incisione soltanto nel 2008, quando la stessa entra ufficialmente nella rosa degli album "perduti" di Neil Young, assieme a "Hitchhiker", "Homegrown", “Chrome Dreams”, “Oceanside/Countryside”, “Island In The Sun” e “Times Square”. Fu proprio lo stesso cantante a parlarne in più occasioni nel corso degli anni, anche se sarà necessario aspettare il 2021 per apprendere info più accurate: registrato all'inizio del millennio ai Toast Studios di San Francisco (da cui il nome), "non ne ero contento", dice ai media l'ex Buffalo Springfield, "o forse ero solo generalmente infelice. Non so. Era un album molto desolante, molto triste e senza risposte. (.) A differenza di tutti gli altri (album), Toast era così triste che non riuscivo a spegnerlo. L'ho semplicemente saltato e ho continuato a fare un altro album al suo posto. Non riuscivo a gestirlo in quel momento" (il 2001). E così, viene reso noto che, volendo parlare della genesi di questo lavoro, bisogna andare a ritroso nel tempo di circa 20 anni. No, non si parla dei mitici anni '60 o '70 (gli anni '80 tralasciamoli per decenza), e neanche dei comunque validi anni '90, ma degli "incredibili" anni 2000. Ciò la dice lunga sull'attenzione che dovremmo attribuire al ripescaggio di questo album. Cioè a dire che si può gridare al miracolo quando si recuperano lavori come i citati "Hitchhiker" e "Homegrown", entrambi partoriti nel periodo aureo del canadese, cioè quando egli aveva veramente qualcosa di nuovo da dire, ma non certo allorquando viene resuscitato un lavoro del 2001, cioè quando, se va bene, egli si limitava a confermare una sua passata direzione musicale piuttosto che a dettarne una nuova. Coordinando in considerazioni di sintesi quanto espresso fino ad ora, questo album non dice nulla di nuovo rispetto a quanto detto in passato. Ma non è finita, purtroppo, giacché buona parte della tracklist non è affatto inedita: quattro brani ivi inclusi ("Goin' Home", "Quit", "How Ya Doin'?" e "Boom Boom Boom"), furono immediatamente rielaborati (gli ultimi due anche ribattezzati ex novo, rispettivamente con i titoli "Mr Disappointment" e "She's A Healer"), per essere inclusi nell'album successivo, "Are You Passionate?" del 2002. Due degli altri tre, poi ("Standing In the Light of Love" e "Gateway of Love"), persero subito la loro aurea di epico mistero nel momento in cui vennero eseguiti dal vivo, cosa che accadeva lo stesso anno della loro incisione (prima esecuzione di entrambi: tour europeo del 2001, con i Crazy Horse). Le performance, peraltro, non rimanevano sconosciute ai più, essendo subito documentate via internet, giacché i 2000, lo si ricorda ai più distratti, si collocano in piena era di (digitale) globalizzazione (furono anche incluse in dozzine di incisioni non ufficiali, talvolta anche economiche). Insomma, alla fine dei conti, nella tracklist di “Toast”, "Timberline" è l'unica canzone veramente inedita, dato numerico che ci sembra non sufficiente a farci gridare al miracoloso ritrovamento. Su una cosa, però, siamo costretti a spendere parole positive: ha ragione, Young, allorquando asserisce che i Crazy Horse, in questo disco, "mostrano una profondità mai vista o sentita prima. Il più grande gruppo che abbia mai incontrato. Questo è un apice. Dove mi hanno lasciato andare, dove mi hanno portato, è stato incredibile." (la band di cui si parla, è quella con Frank Sampedro in organico, non quella attuale con Nils Lofgren). Ed è proprio così: musica aspra, ruvida, oltremodo diretta, a tratti meravigliosamente grezza, proprio come ci ha abituato l'ombroso nord americano ogni volta che sceglie di lanciare sferzate in sella all'indomabile cavallo pazzo. Su questo, proprio, nessun dubbio. In conclusione, quindi, niente di nuovo all'orizzonte e, di conseguenza, niente di epico o memorabile o leggendario, come pomposamente strombazzato al momento da molti organi mediatici di settore, ma certamente musica di ottima qualità che conferma quanto già detto più e più volte in passato dal rinomato quartetto. Per questo motivo, l'acquisto di quest'opera è certamente consigliato, pur ai soli adoratori più integralisti. |
Neil Young - vocals, guitars, harmonica tracklist: |