Roma, 09 Dicembre 2010 - Sinister Noise
Nel chiedere cosa fosse passato per la testa di un tipo come Bill Steer - da indurlo ad abbandonare il suono estremo di bands come Carcass e Napalm Death, per adottare quello graffiante ed immediato, tipico dei seventies più riffettari, dei Firebird, un trio con 10 anni di vita e ben 6 albums all’attivo - il solito sapientone animato da spocchia e prosopopea risponde, con malcelata alterigia, che con le predette bands “i sordi nun se fanno più”. Per tutta risposta, lo invito a guardarsi intorno: è il 9 dicembre 2010 e, in una realtà come Roma, una metropoli che conta più di 2.700.000 abitanti, un locale come il Sinister Noise, dotato di una capienza massima di 100-150 persone, ne ospita a malapena 50 in occasione del concerto dei citati Firebird, di cui almeno un terzo ivi capitato forse per puro caso. Ma quali soldi? È appena il caso di rimarcare, invece, che una band “che non tira più”, come i Napalm Death, lo scorso anno ha fatto il pienone all’Alpheus. Ciò non basta a mettere a tacere il loquace (ancorché inadeguato) cacasenno: poco più avanti, infatti, il tipo assume motu proprio le vesti di un vero e proprio spara sentenze allorquando, sempre rivolto allo scrivente, chiede con sottile ironia “ma tu, un anno fa, li conoscevi i Firebird?”, facendo intendere che lui, invece, li conosceva fin dall’uscita del secondo album (ma non del primo perché “non è mai uscito in vinile e io compro solo vinili”), per poi ammettere, dopo neanche 10 minuti (così facendo contraddicendosi clamorosamente), che non avrebbe saputo riconoscere nessuna delle canzoni del gruppo.
Sopportato l’ennesimo sproloquio del petulante personaggio, siamo ormai giunti all’inizio del concerto: il già citato numero contenuto degli spettatori – che, a poco meno di 5 minuti dal concerto, si è arricchito ulteriormente di una manciata di ritardatari - non può che far onore ad un personaggio sui generis come Bill Steer, potenzialmente idoneo a pretendere maggiori attenzioni se volesse militare in formazioni più conosciute e blasonate, ancorché esponenti di un genere completamente diverso, e che sceglie, invece, di esibirsi in piccoli contesti pur di suonare la musica che, da appena 10 anni, lo emoziona più di ogni altra cosa. Per nostra fortuna!, verrebbe da aggiungere. I musicisti salgono sul palco e fini dalle prime note, mi sento orgoglioso e mi considero estremamente fortunato di aver avuto l’opportunità di vedere dal vivo questa band sublime, unitamente ad una contenutissima schiera di eletti, peraltro in un contesto di piccolo club (quale quello del Sinsiter Noise) che adoro senza riserve. Le contenute dimensioni del locale, infatti, permettono un contatto con la band che non ha precedenti nella mia esperienza di spettatore, che pure è consistente, al punto che si può affermare, senza remore, che il gruppo suona praticamente a ridosso della platea: senza barriere, senza security, senza paure e apprensioni varie. La scarna composizione del drumkit in uso a Ludwig Witt (batterista storico, da poco rientrato nel gruppo), può essere considerata il vessillo ideologico della band: da un lato una potenza di suono paragonabile a formazioni di più ampia estensione numerica; dall’altro, una tecnica talmente sopraffina da riuscire a coprire la scelta di un minimalismo negli strumenti a dir poco imbarazzante (niente tremolo e solo due effetti per Steer; tre piatti, 4 tamburi e un campanaccio per Witt; un solo effetto per May). Bill Steer è un chitarrista che, anche in seno alla creatura Firebird, dimostra creatività, estro e, se non genio esecutivo, quantomeno rare ed eccelse qualità metodologiche. Più dotato nella tecnica chitarristica che non in quella vocale, si è profuso in una esecuzione calda dai toni ardenti, mai scadente nel mero virtuosismo, nel quale, invece, egli ha voluto incedere con intelligente parsimonia e non comune gusto estetico, sempre animato da profonda umiltà interiore. Sebbene il nuovo bassista, pur supportando egregiamente il frontman del gruppo, suonasse pregiandosi di effettare il suo strumento con un suono sporco, invero non sempre adeguato, il batterista si è profuso in una performance talmente di livello, da competere, sul piano esecutivo, con quella del più titolato leader. A metà del concerto – dopo che il trio ci aveva già intrattenuto con perle quali “Blue Flame”, “Soul Saviour”, “Silent Strangers”, “Jack The Lad” e, addirittura, una cover di James Taylor (“Fool For You”) – riflettevo sul fatto che, più che ricordarmi Humble Pie e Cream, bands cui viene spesso associato, il trio mi ha proiettato indietro di soli 20 anni, al cospetto virtuale dei Badlands, band statunitense a dir poco eccezionale nata per volontà di Jake E. Lee a cavallo tra gli ’80 e i ’90, che traeva ispirazione dai medesimi contesti storici attinti dalla prima metà dei seventies (anche questo chitarrista, curiosamente, fu protagonista di un solido cambio estetico, ancorché meno radicale, provenendo dalla band di Ozzy Osbourne). Sennonché, rispetto alla band americana, i Firebird amano profondersi in pezzi più brevi ed immediati e gioiscono nello sporcare il suono di insieme (sono due complimenti) ma, chiaramente, non sono in possesso di una voce sublime quale quella del compianto Ray Gillen (è un aspetto negativo). Tuttavia, il substrato sonoro promulgato dalle due bands è, a parere di chi scrive, esattamente lo stesso. Niente bis, purtroppo, a causa di un mero malinteso: annunciando gli ultimi due brani, il chitarrista ha simpaticamente previsto il rientro sul palco previa acclamazione da parte del pubblico. Sennonché, dopo che i tre protagonisti avevano concluso il setlist (con un pezzo che rappresenta una delle versioni più hard mai sentite da una formazione completamente priva di chitarra, sostituita invece da un’armonica aggressiva e onnipresente), la platea ha dimostrato di non aver capito un’acca dell’inglese rauco e pronunciato a denti stretti dal leader, alche nessuna acclamazione ha fatto seguito e i musicisti sono usciti solo per smontare gli strumenti. Un vero peccato, perché la performance – se non si è ancora capito – ha rappresentato un momento davvero irrinunciabile nella esperienza di chi, come lo scrivente, ama più di ogni altra cosa sentire la musica eseguita dal vivo in maniera istintiva e immediata, senza sovraincisioni, effetti e programmazioni di sorta, in un contesto di vicinanza tra pubblico e artisti non frapposto da alcuna barriera. In tal senso, va ringraziata l’amministrazione del locale che, inaspettatamente, è riuscita a portare una band di siffatto livello nella Capitale (mi dicono, addirittura per la seconda volta), al prezzo incredibile, Udite! Udite!, di appena 6 euro. Thanks a lot.
Sinister Noise Live Club: Roma - Via dei Magazzini Generali 4b (zona Ostiense/Piramide) www.sinisternoise.com www.myspace.com/sinisternoiseclub
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Bill Steer: Chitarra, voce, armonica Ludwig Witt: Batteria Greyum May: Basso
Data: 09-12-2010 Luogo: Roma - Sinister Noise Genere: Rock/Stoner/Blues
Setlist: non necessariamente in questo ordine Play The Fool (Hot Wings) Blue Flame (Grand Union) Soul Saviour (Double Diamond) Fool For You (Grand Union) Silent Strangers (Grand Union) Jack The Lad (Grand Union) A Wing & A Prayer (Double Diamond) Bright Lights (Double Diamond) Ruwed (1st Album) Meantime (1st Album) Zoltana (Deluxe) Hardened Sole (1st Album) Horse Drawn Man (Hot Wings) Slow Blues (Deluxe) È inclusa anche una cover dei Tank di cui purtroppo non siamo in grado riferire il titolo.
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