Wow! Ecco un bel live che cattura al loro picco i Blackfoot, capaci di coniugare come nessun altro gruppo la potenza dell'hard rock con la rustica attitudine del southern. Per chi non lo conoscesse a dovere, questo ensemble è iconografico per definizione: era infatti composto da quattro membri di cui tre di sangue pellerossa, due dei quali vantavano un passato nei Lynyrd Skynyrd nel biennio 1970-1971 (tracce del loro passaggio si trovano in "Street Survivors" e "Skynyrd's First and... Last", lavori pubblicati rispettivamente nel 1977 e nel 1978 che raccolgono anche brani di quel periodo. Uno di essi, Rickey Medlocke, è peraltro rientrato negli Skynyrds nel 1996 e vi permane tuttora). Questo titolo documenta la band poco prima del declino artistico, appena dopo la pubblicazione di "Marauder", l'ultimo di 5 album spettacolari: i primi due di genuino e graffiante southern rock ("No Reservations" del 1975 e "Flyin' High" dell'anno successivo), gli altri di puro hard southern ("Strikes", "Tomcattin'" e il citato "Marauder", pubblicati a raffica nel triennio 1979-1981). Va detto, per dovere di completezza, che dello stesso periodo esistono due live ufficiali: "Highway Songs" (registrato nel 1982 nel Regno Unito) - un album talmente aggressivo e graffiante da offuscare d'un colpo anche la rude pesantezza del nascente thrash metal - e il postumo edito dalla King Biscuit Flower Hour (registrato due anni dopo al The Hollywood Palladium). Pur tuttavia, considerato che quest'ultimo testimonia il declino della band, avviatasi verso l'ammorbidimento del suono a causa dell'innesto delle tastiere (di Ken Hensley) e che l'opera qui recensita documenta una data diversa da "Highway Songs", presentando peraltro una scaletta decisamente più dilatata (che supera i settanta minuti), non c'è da manifestare esitazione alcuna all'acquisto del Cd in esame. Di qualità non eccelsa (è una registrazione soundboard trasmessa alla radio, come testimonia anche l'undicesimo brano), l'uscita discografica de qua (pubblicata dalla americana "Klondike", un label mezza pirata e mezza legale, già fautrice di cd live di altri artisti dei seventies) presenta una scaletta favolosa che racchiude i principali classici della band. E se da un lato mancano alcune perle (come "Fly Away", l'equivalente di quello che rappresenta "Freebird" per gli Skynyrds), "Road Fever" supera i dieci minuti mentre "Highway Song" arriva a sfiorare i dodici, eccellenze di tempo del tutto assenti nei due capitoli live sopra citati. Il pregio dell'album non è rinvenibile nella durata dei singoli brani, ovviamente, ma nella grandezza esecutiva di un combo le cui qualità andrebbero oggi largamente rivalutate. In possesso di un batterista veloce, preciso e tecnico (molto raro attribuire tutte e tre le qualità ad un unico batterista), due chitarristi graffianti che amavano duellare alternandosi al bottleneck, un cantante esaltato e ed esaltante, un bassista puntuale e solido che si presentava sul palco vestito da indiano pellerossa dalla testa ai piedi, i Blackfoot hanno portato con baldanzosa sicumera il vessilo di un genere che, nei primi anni '80, era ormai in netto calo di popolarità, donandogli l'ultimo guizzo di vitalità, prima del definitivo regresso artistico dovuto a sviamento delle attenzioni di un pubblico volubile e poco fedele. Dopo "Marauder" seguirà l'onesto ma non entusiasmante "Siogo" e niente sarà più come prima: la band stempererà il suono, caccerà il chitarrista dal suono biker, pubblicherà opere sbiadite ("Vertical Smile" che, più che sulla musica, sembrava far leva sulle piccanti allusioni sessuali espresse nel titolo) e prive di idenità ("Rickey Medlocke & Blackfoot" che, a dispetto del titolo, vedeva presenti il solo Rickey senza alcuno dei Blackfoot originari), si sfalderà una prima, una seconda e una terza volta, per poi ricostituirsi recentemente - sotto la supervisione del citato Medlocke - con tutti membri non originali (!). 90/100
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Rick Medlocke: voce, chitarra Anno: 2015 |