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Metallica
Death Magnetic

Recensione speciale per "Death Magnetic" dei Metallica Si può dire che negli ultimi anni i Metallica abbiano vissuto in una sorta di limbo, osteggiati da molti tra fan e critica per le pessime prove in studio, ma ancora molto seguiti in sede live, dove continuano ad essere una garanzia. Insomma, questo nono album era atteso al varco con particolare curiosità ma anche sfiducia. La delusione cocente di St. Anger, un disco sbagliato in tutto e per tutto, sembrava realmente l’ultimo passo verso il baratro. Forse anche per questo, sentendo le chitarre Speed dell’opening track, “That Was Just Your Life”, ho tirato un sospiro di sollievo; ma andiamo con ordine.
Death Magnetic è la naturale conseguenza di due fattori.
Il primo è sicuramente legato allo status dei componenti. Hetfield ha superato da un pezzo i suoi problemi con l’alcool e sembra davvero rigenerato, concentrato sul suo lavoro e quindi anche più ispirato artisticamente. Hammett ha deciso di ricominciare a suonare la chitarra e Trujillo è sicuramente meglio di Bob Rock. Insomma, la band a differenza di cinque anni fa è in forma e come ha detto lo stesso Ulrich in un’intervista, ha ritrovato la serenità di un tempo. E si sente. Ci vuole poco a capire che siamo di fronte ad un disco energico, potente, dinamico, pieno di vita.
Il secondo elemento determinante è che i Metallica si sono messi a studiare il loro passato, andando a scovare ciò che li rendeva i Masters. Rick Rubin è stato importante in questa ritorno alle origini. Perché è così, Death Magnetic potrebbe benissimo essere un disco dell’89 - ‘90. Velocità, potenza, suoni sferzanti, rullate, assoli taglienti e soprattutto, finalmente, il canto dinamico e slanciato del miglior Hetfield.

That Was Just Your Life:
Si inizia alla grande. Un intro oscuro e minaccioso lascia presto spazio ad un amalgama di rapidi riff di chitarra, un turbinio di distorsioni di ottima fattura. Ciò che stupisce maggiormente è il canto di Hetfield; una scarica di versi delle più veementi. Si respira aria di passato. A tratti sembra di sentire “Blackened”, ma è davvero questione di pochi passaggi. È il primo pezzo Speed Metal del gruppo da circa venti anni. Si può dire che abbiano fallito e non siano riusciti a rinnovarsi (ed è pur vero), ma io preferisco gustarmi appieno i riff soverchianti, gli assoli fulminei e i ritmi servaggi di questo splendido pezzo.
The End Of The Line:
Il secondo brano segue ritmi meno forsennati e più complessi. La struttura melodica è più ricca e meno violenta, secondo la tradizione delle epopee epiche del passato (vedi “Master of Puppets” o “…And Justice For All”). L’impasto sonoro è comunque aggressivo ed imponente. Il classico pezzo dei Metallica vecchio stampo: stacchi ritmici, riff granitici, le due chitarre che dialogano freneticamente, canto aggressivo e quell’intermezzo malinconico che esplode nel maestoso climax finale. “Say goodbye, 'cause you've reached the end of the line“.
Broken, Beat & Scarred:
È il momento della cavalcata infernale. Chitarre torbide ci accolgono tra i fumi alacri di questo incubo ad occhi aperti. Il timbro vocale rauco contribuisce a creare un mood quasi tombale. Non a caso il testo recita “The dawn, the death, the fight to the final breath. What don’t kill you make you more strong“. L’atmosfera è satura di negatività. Il magnetismo della morte è qui espresso con grande efficacia. I ritmi martellanti ergono una muraglia sonora invalicabile. Un brano di grande spessore, meno immediato dei primi due, ma parimenti valido.
The Day That Never Comes:
Se i primi tre pezzi si ispiravano al glorioso passato della band, ma mantenevano una propria originalità, con il primo singolo i ‘Tallica si lasciano prendere la mano. Il riff facilone e la melodia sono fin troppo simili a quelli delle splendide ballate di un tempo. Si lascia ascoltare, ma certamente non può competere con colossi quali “Fade To Black” e “One”. Fortunatamente, la seconda metà del brano è completamente strumentale e riesce a risollevare un po’ la situazione, che altrimenti sarebbe stata piuttosto povera di interesse. Da sottolineare la magnifica alternanza tra chitarra solista e d’accompagnamento, una sibilante, l’altra roboante.
All Nightmare Long:
La quinta traccia è Thrash puro; riff fitti, ritmica possente, canto slanciato. Il lavoro alle chitarre è ottimo, le linee vocali accattivanti, c’è una notevole variatio delle strutture musicali, ma probabilmente manca quel qualcosa che rende un brano memorabile. Forse il ritornello è un po’ banale, forse i suoni sono eccessivamente smussati, sta di fatto che il brano, nella sua pur pregevole fattura, non riesce a colpire più di tanto. Normale amministrazione.
Cyanide:
L’incipit è fragoroso, il prosieguo convincente, con i suoi minacciosi giri di chitarra ed il canto incisivo di Hetfield. Certo, non è un brano trascendentale, ma presenta numerosi spunti interesse. I riff avvolgenti riescono ad affascinare, la struttura del brano è piuttosto robusta e non mancano gli assoli di Hammett. In evidenza anche Trujillo con i suoi ritmi insistenti. “Cyanide, living dead inside. Break this empty shell forevermore“.
The Unforgiven III:
Ad introdurci è un dolce pianoforte ed una morbida linea di basso, ma si parte subito con violenza. La peculiarità del brano è l’alternarsi di distorsioni e melodie agrodolci. Le linee melodiche sono anche interessanti, ipnotiche ed intriganti; l’idea sembra funzionare bene. Se non fosse che questo espediente viene ripetuto numerose volte senza quasi nessuna variante. Ne risulta un brano godibile ma troppo ripetitivo. Se rielaborato meglio poteva essere un grande pezzo, così è appena sufficiente.
The Judas Kiss:
Si torna a picchiare duro con l’ottava traccia. Un martello pneumatico che frantuma i timpani, degna erede della magnifica “Disposable Heroes”. La coesione delle parti permette di plasmare questa poderosa macchina sputafuoco. L’adrenalina scorre a fiumi, i nervi sono tesi, il suono è anche più corposo del solito. Le distorsioni taglienti si fondono al basso profondo, forgiando un muro di suono infrangibile. L’intermezzo alla chitarra è qualcosa di splendido col suo incedere acido, seguito da un assolo supersonico che sfocia nel grido “Judas lives recite this vow, I've become your new god now“. Ad arricchire il piatto c’è il climax finale, con i vocalizzi graffianti di Hetfield che ci invita a vendere la nostra anima. “So bow down. Sell your soul to me. I will set you free, pacify your demons“. Un anthem demoniaco!
Suicide & Redemption:
Proseguendo l’opera di ritorno al passato, non poteva mancare un brano strumentale. Anche in questo caso c’è il rischio di ripetersi. In effetti la struttura del brano ricorda “Orion”, con una prima parte più veemente e squadrata ed una seconda melodica e liberatoria. Nonostante la mancanza di nuove idee, il brano è ben fatto, ha un impatto potente e riesce a rendere con grande efficacia l’idea del suicidio prima e della redenzione poi, come recita il titolo. Episodio che chiarifica la direzione in cui va Death Magnetic, la ricerca della qualità prima dell’originalità. E a noi questa scelta piace. Cosa ce ne facciamo di un disco originale ma brutto ?
My Apocalypse:
La chiusura, così come l’incipit del disco, è affidata ad un pezzo di puro Speed Metal. Ritmica martellante, canto granitico, chitarre affilate e tanta velocità. Il pezzo più radicale ed istintivo. Davvero selvaggio. Certo, per i Metallica è uno scherzo scrive brani come questo, ma il risultato rimane comunque abbastanza godibile ed entusiasmante.

Come è già stato detto, Death Magnetic è un album che non presenta nessuna novità. È una totale ripresa dei canoni stilistici che hanno fatto la fortuna dei primi Metallica. Qualcosa di interessante deve anche esserci in quella musica se per dieci anni i Four Horsemen sono stati i Re del Metal. Una copia romana di una statua greca non era forse perfetta come l’originale, ma non venite a dirmi che fosse brutta.
Si può parlare di sincerità, chiedersi quanto sia spontaneo un disco del genere. È ovvio che il furore giovanile di vent’anni fa è scemato, ma non penso che questi dieci brani siano un mero esercizio commerciale. Si sente che c’è ancora qualcosa di vero e radicato che spinge Hetfield e soci ad andare avanti. Impossibile pretendere un capolavoro dopo quasi trent’anni di carriera, così come non avrebbe senso cercare nuove strade musicali (il risultato l’abbiamo visto con St. Anger). L’unica via percorribile è quella che viene qui esposta. Riproporre se stessi, cercando di dar forma a canzoni dignitose ed interessanti e senza sfociare nell’auto-plagio.
Con Death Magnetic, i Metallica sono riusciti a risorgere dalle loro ceneri dopo quindici anni di triste letargo.
E pensare che era così facile; bastava proseguire sulla vecchia strada.

65/100

di Fabio Busi

 

That Was Just Your Life:
Pochi secondi di silenzio scanditi da un battito cardiaco a malapena udibile. Un cupo arpeggio introduttivo ed ecco irrompere le chitarre più famose del metal. Finalmente, possiamo dirlo con un certo sollievo, i suoni sono quelli dei bei tempi e lo sono anche i riff. Sembrano tanto voler dire “Ciao, siamo i Metallica e siamo tornati per spaccarvi il culo!”. La musica aumenta di velocità e un James Hetfield in gran forma inizia a cantare con uno stile che ricalca quello degli anni ’80. La voce è leggermente meno sporca ma senza che ciò gravi particolarmente sulla resa patemica del brano. Il ritornello, manco a dirlo, è di quelli che rimangono subito in testa. Quel misto di punk e trash tanto agognato dai fans è di nuovo su un disco dei Metallica, ruvido ed esaltante. Incrollabile se non sotto i colpi degli assoli magistrali di Kirk e James. Un ottimo inizio.
The End Of The Line:
Un brano che non toglie nè aggiunge nulla a Death Magnetic così come all’intera produzione della band. Tuttavia, da un punto di vista stilistico, costituisce una degna prosecuzione del discorso iniziato dal primo. I tempi di esecuzione sono a tratti più roccheggianti e ‘stoner’ rispetto al solito. Anche se questo non piacerà a tutti, The End Of The Line è uno di quei brani che si prestano in modo particolare per essere suonati dal vivo. Quasi otto minuti di musica che scorrono, tanto da sembrare essere di meno.
Broken Beat And Scarred:
Brano cadenzato come nei migliori brani del black album, voce registrata in modo molto essenziale come nei primi album e un livello di pathos sempre alto. Non manca davvero nulla. Nella parte finale accellera per lasciare spazio agli assoli di due chitarristi che tornano a guardare il mondo dall’alto. Il brano non è uno di quei capolavori che rimarrà nelle memorie dei fans in quanto capolavoro ma è comunque una grande dimostrazione da parte di una band che sembra finalmente aver ritrovato se stessa.
The Day That Never Comes:
Il brano scelto come primo singolo, destinato ad essere ascoltato da una fetta molto vasta di fans. Ha il pregio di partire lentamente richiamando il peggio della produzione dei Metallica per poi arrabbiarsi. Lo fa attraverso riff che sembrano uscirti da “...And Justice For All”. Gli assoli sono di quelli che mettono tutti i fans, vecchi e nuovi, d’accordo. Buono.
All Nightmare Long:
Il brano migliore del disco. Un esplosione rabbiosa di adrenalina che mette in luce il meglio del ritrovato Metallica style. Certo, se la prova di Lars era sembrata sin qui essere volutamente essenziale e scarna, qui non possiamo certo dire altrettanto. Qui avrebbe potuto fare di più e se lo avesse fatto sarebbe stato un grosso vantaggio per l’intero Death Magnetic. Tuttavia alla mediocre prova esecutiva di Lars si contrappone la superba performance del resto del combo. Il brano, a conti fatti, è comunque un capolavoro. Trascinatore.
Cyanide:
Più leggera cadenzata e piacevole. Da modo all’ascoltatore di tirare il fiato dopo aver ascoltato (ripetutamente) All Nightmare Long. Cyanide è un buon brano in pieno stile Metallica. Indefinibile per concentrazione di sfaccettature stilistiche, dentro c’è un po’ di tutto, aiuta il disco ad assestarsi su un ottimo livello compositivo senza comunque regalare grandi momenti indimenticabili.
The Unforgiven III:
Quando ho letto la tracklist di Death Magnetic e ho visto che vi compariva un’altra Unforgiven ho pensato ad uno scherzo. Invece purtroppo è tutto vero. Un brano che fa storia a se, che piacerà e non piacerà. L’inizio è affidato ad un pianoforte per poi confluire in una normalissima rock song. All’interno di essa va comunque segnalato come la voce di James Hetfield si lasci cullare, intensa e bellissima, per poi confluire verso soluzioni più ruvide e arrabbiate. Una grandissima prova esecutiva che tuttavia non trova nella sostanza un vero e proprio perché di esistere. Almeno non qui. Fuori luogo.
The Judas Kiss:
Malgrado le precedenti due canzoni abbiano fatto temere il peggio, l’album torna ai livelli con cui aveva iniziato. The Judas Kiss è un brano dei Metallica dei giorni nostri. Come se la band avesse iniziato a comporre nel 2008 anziché a inizio anni ’80. The Judas Kiss è un brano ben riuscito e, per quanto ancora troppo lontano dall’essere un capolavoro, possiamo considerarlo una dimostrazione di come il Metal sia un genere senza tempo. Forse è questa la vera forza di un genere che nonostante tutto continua (soprav)vivere.
Anche qui gli assoli prendono possesso del brano nella sua seconda metà, allungandolo e impreziosendolo. La batteria continua a non brillare anche se qui non penalizza in modo particolare in brano.
Suicide And Redemption:
Un brano strumentale pregevole. Fonde tanti stili, da quelli che hanno influenzato i primi riff di chitarra della band a quelli della produzione più recente, passando per quelli che li hanno resi più famosi. È un brano particolare, per veri fans.
My Apocalypse:
È il brano conclusivo e in effetti suona come una sorta di sigla conclusiva. Speed metal e southern rock si affrontano in una battaglia all’ultimo sangue che trova cornice in questa My Apocalypse. Bella e diretta, si chiude alla maniera del classico gruppo che prova le canzoni in garage, come se non avessero ancora finito di comporla. Quasi a voler lasciare intendere che la band ha ancora molto da dire. A sentire questo brano non mi sento di dargli torto.

Non siamo di fronte ad un capolavoro ma questo “Death Magnetic” è davvero un buon album. Una prova sincera da parte di una band che ha capito che la dignità non si compra ne si costruisce a suon di reclame e video. I Metallica sono tornati ad essere una band musicalmente vincente. Potete star certi che se non fosse per la mediocre prova esecutiva di Lars Ulrich dietro le pelli questo disco farebbe parlare meglio di se. Il buon vecchio batterista non ha che da ringraziare il groove maturato con la band in tutti questi anni di carriera, senza il quale probabilmente vi avrei descritto un album diverso, peggiore. Death Magnetic tuttavia non verrà ricordato come ennesima prova opaca di una band ormai imborghesita e condizionata dal troppo successo, bensì come il risultato di una band che si sta ritrovando e che ha finalmente proposto un album degno del nome che porta. Tutto lascia ben sperare per il futuro, intanto godiamoci Death Magnetic.

75/100

di Mario Dessalvi


 

Un nuovo disco dei Metallica non può certamente passare inosservato, non tanto per la celebrità degli autori, quanto perché i “Four Horsemen” sono da tempo attesi al varco, per via del loro passato più recente che, per usare un eufemismo, ha spesso deluso le aspettative dei fan più oltranzisti. Non abbiamo alcuna difficoltà nell’ammettere che già da vari anni – sentendoci presi in giro dalle ripetute pubblicazioni di album costruiti su un’impalcatura alternative imposta dalle logiche del mercato discografico statunitense (negli ultimi tempi dedito più al vile denaro che alla qualità musicale, in modo da “educare” i giovani ad esaltarsi inutilmente per canzoni dalla struttura minimale, spesso accompagnata da tematiche inconsistenti), tra una strizzata d’occhio al nu metal ed un suono di batteria simile a quello delle pentole da cucina, tra una buffonesca comparsata agli MTV Awards ed imbarazzanti interviste in cui i musicisti sostenevano che il loro nuovo corso era la naturale evoluzione del vecchio thrash metal – avevamo abbandonato i Metallica al loro destino, perché eravamo assolutamente convinti che per loro il thrash rappresentasse un passato ormai eccessivamente scomodo, da rinnegare interamente, per rifarsi una verginità musicale da esibire come passepartout per il falso mondo dello star business: un mondo infarcito di lustrini e paillettes, ma povero di sentimenti, totalmente opposto all’universo heavy metal, semplice nei mezzi, ma ricco di emozioni ed ideali.

Ed è, pertanto, con notevole scetticismo che ci siamo avvicinati a “Death Magnetic”, non dando alcun credito alle solite voci di corridoio che tradizionalmente accompagnano composizione, registrazione e distribuzione di un album, non essendo per niente convinti del fatto che basti sostituire il produttore (nella fattispecie, Rick Rubin al posto di Bob Rock) per tornare alle origini.
Quando, finalmente, ci siamo trovati davanti l’opera compiuta, non abbiamo potuto far a meno di notare che il nome della band campeggia trionfale sulla copertina, ma con la grafica originaria, quella che, non senza suscitare polemiche, venne ripudiata ai tempi di “Load” con la scusa pietosa che i tempi erano cambiati; l’evidente realtà era, invece, che quel vestito era troppo aggressivo, non più adatto alla macchina da soldi che i Metallica erano meritatamente diventati ed alla nuova tipologia di adepti da conquistare. E’ normale che, per chi ha vissuto l’epopea di quegli anni gloriosi, il ritorno al vecchio logo contenga un retrogusto poetico e, allo stesso tempo, nostalgico, ma, ancora non persuasi che fosse sufficiente una svolta grafica a segnare il ritorno del gruppo alle indimenticabili sonorità dei primi lavori, abbiamo preferito affidarci esclusivamente alle note.
Prima di esaminare il contenuto musicale, però, per amore della giustizia, non possiamo non evidenziare il fatto che non è solo il logo a risultare intrigante, bensì l’intera copertina, visto che raffigura una bara posta in mezzo ad un campo magnetico; ai più superficiali potrà sembrare un soggetto relativamente semplice, ma ci teniamo a far notare che le linee di campo sono ben visibili sullo sfondo argentato: una tanto notevole cura del particolare ed una scelta cromatica azzeccata rappresentano una indiscutibile nota di merito.

That Was Just Your Life:
L'album si apre con il cuore che batte di "That Was Just Your Life", un pezzo veloce e trascinante, anche se un po’ ripetitivo.
The End Of The Line: Appare lievemente più dilatato, oscillante tra qualche contorsionismo moderno di stampo Meshuggah e passaggi di thrash vecchio stile, arricchito da un buon assolo con il wha-wha.
Broken, Beat & Scarred:
E' un mid-tempo, che presto cresce in modo sorprendente, sotto una ritmica claustrofobica e travolgente, passando per qualche inevitabile autocitazione.
The Day That Never Comes:
E' il primo singolo estratto dal disco, canzone di un certo spessore, dalla quale, ovviamente, è stato realizzato anche un videoclip: dopo un inizio melodico, la distorsione che segue non intacca la struttura della malinconica ballata; dopo circa quattro minuti il brano si indurisce ed incede dapprima cadenzato, quindi prosegue come un tritacarne, con le due chitarre in assolo veloce ed elaborato, che ci portano ad un finale deflagrante.
All Nightmare Long:
Fornisce uno dei momenti a più alta intensità, un brano che si presenta inizialmente darkeggiante, quindi, dopo un’attesa volutamente estenuante, esplode il thrash, che dà luogo ad un pezzo d’impatto, all’insegna della violenza e dell’accelerazione.
Cyanide:
Mid-tempo ben strutturato, a tratti rarefatto, comunque orecchiabile, in cui qualche sonorità moderna, ma non inutilmente modernistica, fa da legame con il recente passato.
The Unforgiven III:
Per ovvi motivi, legati ad indimenticabili ricordi, non può non incuriosire, ma nome a parte, con il brano del 1991 non c’è molta somiglianza: la lenta atmosfera iniziale si indurisce lievemente, formando ancora un ponte con il passato, stavolta semplicemente hard rock; la canzone si riscatta un po’ grazie ad un buon assolo, che ci accompagna al finale melodico.
The Judas Kiss:
Dopo la piccola delusione di "The Unforgiven III", tocca a questo brano il compito di rianimarci, visto che si tratta di un pezzo notevole nella sua semplicità: fin dall’inizio all’insegna del metallo tradizionale, incalzante ed accattivante, con qualche eco maideniana e sabbathiana, naturalmente rielaborata come si confà a dei musicisti della levatura dei Metallica.
Suicide & Redemption:
Strumentale di circa dieci minuti, è compatto e cadenzato, caratterizzato da vari cambi di tempo: si fa ricordare per la presenza di una breve melodia, che, a nostro parere personale, avrebbe potuto essere maggiormente valorizzata, visto che è tra le migliori che la carriera del gruppo ricordi.
My Apocalypse:
La chiusura di Death Magnetic è affidata a questi cinque minuti, thrash selvaggio e tagliente, per nulla scalfito dalla presenza di qualche altra autocitazione, bensì impreziosito da un assolo al fulmicotone e da un finale devastante.

Nonostante i nostri pregiudizi iniziali, il CD si è rivelato piuttosto interessante; pur essendo presenti alcuni elementi di modernità, che marchiano il disco legandolo al 2008, come è giusto che sia, è innegabile un ritorno alle origini, visto che ci pare immediato confrontarlo con “…And Justice for All”, sia dal punto di vista della lunghezza dei pezzi che per il modo in cui alcuni sono posizionati: è abbastanza evidente che “Suicide & Redemption” e “My Apocalypse”, per esempio, corrispondono rispettivamente a “To Live Is To Die” e “Dyers Eve”. Una pecca abbastanza consistente, inoltre, accomuna ulteriormente i due album, visto che l’eccessiva lunghezza dei brani fa perdere loro un po’ di immediatezza. Ci sembra corretto, però, far rilevare che, mentre “…And Justice for All” rappresenta un passo indietro rispetto a quel capolavoro che porta il nome di “Master of Puppets”, questo “Death Magnetic”, così ricco di assoli e di ritmiche vibranti, pur non essendo una pietra miliare, è certamente un enorme balzo in avanti in paragone alle indecenti cadute di stile sfornate da “Load” in poi.
Tutto ciò, naturalmente, vale esclusivamente se vediamo le cose da metallari vecchio stampo, categoria alla quale raccomandiamo vivamente di acquistare il disco, indipendentemente dal settore preferito da ognuno, perché è stupido dividersi su una band del calibro dei Metallica; ai “nuovi metallari”, allattati da sonorità rappeggianti e non avvezzi a tanta aggressività, salvo rare eccezioni che confermano la regola, consigliamo senz’altro l’ascolto, se non altro perché capiscano che il vero heavy metal è cosa profondamente diversa dal crossover che tanto amano.
Se questo lavoro rappresenti per il gruppo un’approfondita analisi sul passato ed un modo di chiedere scusa ai propri seguaci per gli errori ripetutamente commessi, oppure solamente una scelta commerciale, non spetta a noi stabilirlo, ma al tempo, che è sempre galantuomo. Una considerazione conclusiva, però, ci sia concessa dal lettore paziente: se componendo “Death Magnetic” i Metallica hanno voluto fare autocritica allora si sono comportati da musicisti professionali e da veri Uomini; se, invece, il ritorno al thrash metal è dettato più che altro da motivi economici e di show business, allora pur essendo nel bene o nel male una buona notizia, perché riconosce che le sonorità alternative, come tutte le mode, sono prossime alla morte, mentre l’heavy metal, non essendo una moda, bensì uno stile di vita antagonista a tutto ciò che alle mode è connesso, gode ancora di eccellente salute, dimostra d'altro canto che il cambiamento della band di San Francisco è solo di facciata ... al futuro la risposta, per adesso godiamoci questo Death Magnetic.

80/100

di Giuliano Latina



James Hetfield: Voci, chitarra
Kirk Hammett: Chitarra
Robert Trujillo: Basso
Lars Ulrich: Batteria

Anno: 2008
Label: Elektra Records/Universal
Genere: Thrash Metal

Tracklist:
01. That Was Just Your Life
02. The End of the Line
03. Broken, Beat & Scarred
04. The Day That Never Comes
05. All Nightmare Long
06. Cyanide
07. The Unforgiven III
08. The Judas Kiss
09. Suicide & Redemption
10. My Apocalypse

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