Cinquanta anni dal primo album con i Pink Floyd e 25 dalla precedente incisione da solista. Escludendo ovviamente qualche singolo isolato e il suo impegno per aver musicato l’opera lirica “Ça Ira”, questi sono i numeri che per primi caratterizzano il nuovo impegno artistico di Roger Waters. A fronte di 25 anni di inattività in studio di registrazione, l’ex Floyd è stato invece molto presente in ambito Live seppur riproponendo, in un loop senza sosta ma con eccellenti risultati, quelli che erano i suoi passati cavalli di battaglia, passando da “The Wall” a “Dark side of the moon”. Inaspettatamente ora invece si è ripresentato con questa nuova incisione full lenght dal sapore nostalgico. Come è giusto che sia, ogni opera di Waters va analizzata per aspetti specifici. E così sia anche per questa. Partiamo subito con il dire senza mezzi termini che “Is this the life we really want?” è dal punto di vista musicale, sia tecnico/esecutivo che compositivo, un lavoro piuttosto mediocre. Non me ne vogliano tutti i suoi fans più accaniti, ma dopo una vita dedicata ad osannare le gesta discografiche dei Pink Floyd (compresi copiosi ed esosi esborsi monetari per assecondare tutte o quasi le operazioni di marketing ad essi correlati) mi sento in pieno diritto, in quanto primo in classifica tra i fans, di criticare colui che per me ha rappresentato da sempre la summa maxima del genio compositivo musicale. I Floyd sono sempre stati la mia band preferita in assoluto e Waters di riflesso, anche nella sua carriera solista, eppure questa volta non me la sento di elargire commenti positivi non giustificati. Analizzando nel dettaglio l’album, balza subito all’orecchio come il brano “Picture that” sia la copia spiccicata di “Sheep” o come “Smell the roses” lo sia di “Have a cigar”, per non parlare dell’infinità di passaggi estrapolati pari pari da “The wall” e ancora di più da “The final cut”. Qualcuno potrebbe parlare di richiami innocenti e voluti, ma ascoltare un intero disco quasi completamente costituito da un puzzle di passate composizioni, a me sembra chiedere troppo anche al cuore del più sfegatato e rincoglionito tra gli appassionati. Della discografia solista di Roger, amo alla follia “The pros and cons of hitch hiking” e ancora di più “Amused to death” che reputo un capolavoro assoluto da brividi, da cui questa recente incisione è però purtroppo lontana un universo. I tratti caratteristici dello stile watersiano ci sono tutti: rumori latenti ed evocativi, dialoghi o monologhi in secondo piano, esplosioni, aerei e tutto quanto il suo repertorio di effetti speciali. Nonostante ciò, la sostanza musicale è a mio avviso carente. La sua voce è oramai affaticata e poco fluida, come è giusto che sia vista la sua età e come lo era già nel 1992 all’epoca di “Amused to Death”. Tale handicap non aveva però compromesso l’eccezionale qualità di quell’album grazie alla sua elevata caratura complessiva, diversamente da quanto invece accaduto ora. Le chitarre elettriche sono quasi del tutto assenti o in secondo piano, e i suoni nel loro complesso potrebbero essere definiti quasi acustici, che di per sè non è detto sia un male. A mio avviso però l’impatto sonoro è poco ricercato soprattutto rispetto agli standard imposti nel passato dall’artista. Le tonalità basse sono fin troppo corpose e profonde per un risultato che sa leggermente di ovattato. Non che sia una necessità assoluta o un obbligo, ma la attuale formazione è priva di nomi altisonanti quali erano stati, Jeff Beck, Don Henley, Eric Clapton, John Patitucci, Jeff Porcaro e tanti altri che avevano dato quel valore aggiunto tutt’altro che trascurabile alle precedenti incisioni. Le esecuzioni sono piuttosto piatte e pressoché nessuna innovazione è riscontrabile nelle musiche proposte. L’art work dell’edizione in commercio è poi piuttosto minimalista e scarna e questo potrebbe essere giustificato dal concept di ispirazione, ma nessuna scusante può essere accettata per quanto riguarda la confezione: scarna, scomoda, di infima qualità, ma soprattutto pericolosa per la salute fisica del supporto che rischia di essere graffiato ad ogni estrazione, il cui atto può essere quasi paragonato ad un parto, tanto che si è tentati di operare letteralmente un cesareo. Di tutte le tipologie di confezioni presenti, quella adoperata è senza ombra di dubbio quella che fa più schifo, senza mezzi termini. Riguardo il concept invece, come sempre, Waters ha voluto lanciare un forte messaggio.....e altroché se lo ha lanciato. La sua è una decisa denuncia riguardo lo stato di caos e degrado, sociale e politico, in cui versa questo nostro assurdo mondo per colpa dei governanti e delle nicchie di potere. In altri tempi le sue posizioni sarebbero state causa di incidente diplomatico, sia nei testi sia nelle immagini a corredo del libretto. Esplicita è infatti la critica al presidente statunitense, raffigurato al fianco del testo del brano “Picture that”, che viene definito “a leader with no brains”, ma altrettanto chiare sono le sue posizioni riguardo le guerre, la libertà, i profughi e così via. Pur apprezzando le intenzioni e il coraggio mostrato, non sono però riuscito a provare il coinvolgimento emotivo che aveva accompagnato l’ascolto delle sue precedenti incisioni. La produzione ed il mixaggio dell’album sono stati ad opera di Nigel Godrich, il cui nome va associato principalmente a quello dei Radiohead, il cui operato in questo frangente non è certo riuscito a fare la differenza. Alla fine dei conti quindi credo che con questo disco Waters abbia pagato il conto di tanti anni di inattività compositiva ma ciò nonostante di essere ancora capace di sfornare in futuro qualche ottimo disco con qualche sforzo in più e un poco di rodaggio in sala di incisione. |
Roger Waters: voce, chitarra acustica, basso Anno: 2017 |