Se potessi recensire quest’opera usando soltanto cinque vocaboli, esordirei certamente come segue: rivoluzione, sconcerto, turbamento, integrità, appagamento.
E così avrei anche terminato il mio compito, ma farei un torto alla band: i quattro musicisti che la compongono, infatti, capirebbero al volo l’ermetica rappresentazione di cui sopra, non certo il lettore, il quale, con tutta probabilità, passerebbe oltre, tra uno sbadiglio e una grattata di testa. Ricominciamo, quindi. Se vi sono piaciute le meditazioni dissocianti di estrazione multicolore dei primi Mars Volta, avete gioito alle elucubrazioni schizoidi aperte alle inaspettate melodie di stampo ossessivo dei francesi We Insist! (ne abbiamo parlato qui), vi hanno emozionato le drammatiche e teatrali profusioni sonore dei Muse più recenti, beh, non c’è dubbio che i pesaresi Barely Awake facciano per voi. Per apprezzare quest’opera bisogna sudare: scordatevi di inserire il cd e metabolizzarne le musiche in una manciata di ascolti giacché l’opera tutta risulta incredibilmente ardua, di difficilissima fruibilità, bisognosa di innumerevoli e attentissimi ascolti. E pur tuttavia, se avrete l’accortezza di concedervi una buona dose di concentrazione all'ascolto, essa vi darà enormi gratificazioni. Partiamo subito col dire che i primi tre brani – “Lovers are back”, “Falling dreams”, “Down waterfalls” – sono degli autentici capolavori. I primi omaggiano chiaramente le lezioni impartite dai citati We Insist! e Mars Volta, dei quali amalgamo perfettamente gli inquietanti insegnamenti. La terza sembra la perla nascosta dei Muse, connubio perfettamente riuscito tra melodia e potenza sonora. Il resto dei brani è impossibile da sintetizzare in quanto si parla di tanti mondi a parte, ognuno eterogeneo, minuzioso, complicato. Meglio pescare random, quindi: “Eagles, rain, storm” omaggia i chitarrismi meditativi di nascita fripponiana; “Vacanze romane” presenta iniziali sonorità vagamente brasileire che lasciano spazio, inaspettatamente, a deflagrazioni sonore cariche di magie magnetiche; tre sono i nomi che compongono il titolo di “Mark Anne Kelly” e altrettante sono le evocazioni delle realtà musicali ivi espresse (una profusione di stampo rock blues dal retrogusto malinconico; un’esplosione sonora che pare un po’ come se i Muse suonassero all’ennesima potenza; una jamaicana ascendenza che ripesca in termini inusuali la melodia iniziale); se esistesse al mondo la ballata imballabile, questa sarebbe certamente “Paper House”, una “cosa” che suona dolce e creativa ma che risulta dotata di ritmica imprevedibile che la rende necessariamente ostica (giacché il gruppo, ostinatamente, non vuole smentirsi in quanto ad imprevedibilità); “L. 2840,0”, infine, è una composizione che – ancorché divisa in due parti, la [side A] e la [side B] (il gruppo si manifesta singolare anche nei titoli) – suona un po’ come se “Starless”, “Shine On You Crazy Diamond” e “Hey Jude” venissero shakerate da un gruppo di derivazione punk, una cosa che – ormai è evidente a tutti – soltanto questo quartetto può permettersi di fare. Concludendo: siamo in presenza di livelli artistici tanto alti, quanto ardui: livello di appagamento massimo ma riservato soltanto a pochi privilegiati, purtroppo. Voto: 90/100 |
Francesco Agostini: chitarra e voce |