In poco tempo, il nome di Doogie White, cantante scozzese noto per aver prestato l’ugola all’ultima incarnazione dei Rainbow di Blackmore, ritorna alla ribalta con diversi lavori discografici: non pago di aver appena pubblicato, As Yet Untitled, il suo primo lavoro solista (ne abbiamo parlato qui) e di evidenziarsi quale singer dei Tank (imminente il loro prossimo album), riforma i La Paz - misconosciuta band anglosassone degli inizi anni ’80, autrice di due album passati del tutto inosservati, peraltro usciti soltanto nel formato cassetta - e pubblica un nuovo album come Doogie White & La Paz, malcelando il comprensibile desiderio di sfruttare la (relativa) popolarità legata al suo nome.
Orbene, abbandonate completamente le pur apprezzabili ascendenze esercitate da artisti del calibro di Glenn Hughes o di Bon Scott, entrambi massicciamente riveriti nel citato lavoro solista, il nostro percorre diligentemente la lezione impartita da David Coverdale, artista doppiamente omaggiato tanto in termini vocali, quanto di sonorità di insieme. Per tutta la durata del disco, infatti, si respira aria di fine ‘70/inizio ’80 con brani che non si farebbe fatica a collocare nella discografia dei Whitesnake risalenti ai primi 7 anni di attività. Pezzi come “Too Good To Lose”, “This Boy” e “Just For Today”, sembrano pescati direttamente dagli archivi segreti della band londinese. E per gli amanti della svolta americana, perfettamente rappresentata dal capolavoro “1987”, ci sono due episodi (“Lesson In Love”, “What Do You Say”), che non deluderanno certamente le aspettative. Insomma, pur in ambiti assolutamente editi e conosciuti, pericolosamente esposto alle ipotizzabili accuse di clonazione, il nuovo disco dei La Paz si evidenzia quale opera di spessore, frutto di uno sforzo creativo non indifferente che sarà senz’altro apprezzato dagli amanti del genere. Due sole le note stonate: - la stucchevole “Amy” – unico brano bocciato dell’intera opera – rappresenta un chiaro tentativo di replicare la formula delle ballate mielose tipiche dell’“hair metal” di metà anni ’80; - la copertina risulta totalmente fuori tema: sculture marmoree e visioni oniriche che si stagliano su sfondi glaciali sono veramente poco rappresentativi delle sonorità calde e ammiccanti tipiche della produzione più ispirata del “Serpente Bianco”, mentre si attaglierebbero alle algide compagini prog metal, qui completamente assenti. |
Doogie White: Voce Anno: 2012 |